Le potenzialità della politica antimafia
Sono stato sollecitato a intervenire da Emilio Miceli, attuale presidente del Centro Pio La Torre, che qualche giorno fa ha aperto con un suo testo sul sito del Centro un confronto sulla politica antimafia in Italia. È noto a tutti che si tratta di un apparato molto vasto, articolato e incisivo. Sembra addirittura un unicum nel panorama internazionale (ma per qualche aspetto non è esattamente così, come dico appresso).
Nato da risposte emergenziali ad attentati e stragi, è via via cresciuto. È stato ideato e rifinito tramite l’essenziale apporto di alcuni specialisti, nonché di molteplici forze politiche. Ha ispirato la Convenzione Onu sul crimine organizzato transnazionale, varata nel 2000 a Palermo, così come, in certa misura, importanti normative dell’Unione Europea (tra cui quelle in materia di confisca e di Procura dell’Ue).
È un modello, e viene guardato come tale. Se deve continuare a incidere è per un verso necessario conservarne gli assi portanti, e per altro verso immaginare messe a punto, aggiustamenti mirati, integrazioni in presenza di lacune. Del resto, le mafie cambiano in continuazione quanto a competenze, sfere d’azione, tecniche criminali. La politica antimafia deve star loro addosso e anzi anticiparne l’evoluzione. Inoltre, entro il fronte dell’antimafia sono talora emerse incrinature, contrapposizioni, condotte improprie.
Questa preziosa dotazione di strumenti di intervento è stata a suo tempo congegnata da chi non solo era in grado di concepire le soluzioni più penetranti, ma ha anche pagato con la vita la sua dedizione (come Pio La Torre, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e tanti altri).
Il reato di cui all’art. 416 bis del codice penale sarebbe un’anomalia, perché non colpisce una o più attività, bensì la mera appartenenza. D’altro canto, le cosche mafiose esistono ed esplicano il proprio potere intimidatorio proprio perché possono fare affidamento anzitutto su affiliati dotati di caratteristiche particolari, e accanto ad essi sui collusi. L’affiliazione costituisce e rafforza il sodalizio, provocando già di per sé un danno alla collettività.
Il più delle volte non viene ricordato il precedente degli Stati Uniti. Lì nel 1970 fu approvato il Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act (Rico) . Seppure attraverso una formula giuridica non coincidente, all’atto pratico i membri di certe organizzazioni vengono perseguiti in base all’appartenenza a esse, tra l’altro attraverso indagini patrimoniali, sequestri e confische, intercettazioni e così via. Inoltre, come evidenzia già il titolo del Rico, non si fa riferimento soltanto alla violenza mafiosa, quanto anche a sodalizi di altro tipo, tra cui quelli fra corrotti.
Il crimine organizzato non è stato completamente debellato, ma certamente è stato energicamente contenuto.
Franco La Torre nel suo contributo a questo dibattito del 25 luglio 2024 ha parlato della necessità di ritocchi, indicando in particolare alcuni aspetti delle misure di prevenzione, tutti importanti. Sottolineo anch’io, come lui, l’esigenza di soffermarsi ancora sulle caratteristiche e sulla selezione degli amministratori giudiziari, così come dei soggetti cui affidare, sempre di più, misure non ablative come il controllo giudiziario. Sarebbe anche opportuno ritornare sulle norme “processuali” relative all’inflizione di tali misure, al fine di dare più adeguato peso in contraddittorio al punto di vista dei soggetti prevenuti.
Va peraltro ricordato che ci vollero svariati anni per fare arrivare in porto l’importante legge 161/2017, di riforma del cosiddetto codice antimafia. Anche sotto questo profilo, una politica antimafia che si aggiorna è un cantiere sempre aperto.
Attorno alle cosche composte da affiliati si estende notoriamente un’area cosiddetta grigia fatta di soggetti conniventi e a disposizione. Molte controversie ha suscitato la figura del concorso esterno nel reato di cui al 416 bis, ed esiste anche il favoreggiamento. Tuttavia spesso questi strumenti non si rivelano particolarmente efficaci nel colpire l’area grigia. Forse ne servono altri.
Per qualcuno la repressione delle condotte mafiose dovrebbe riguardare le tre mafie storiche, aggiungendo quelle pugliesi, senza allargarsi altrove. Però non è questo ciò che la norma prevede. Certo, occorre stare estremamente attenti ai presupposti applicativi ed evitare di trovare mafie dappertutto. Ma vi sono altre condotte criminali che a ben vedere presentano i tratti della fattispecie di cui all’art. 416 bis.
Un ambito che desta un notevole allarme sociale, a fasi alterne (nel senso che quando capita qualcosa di efferato e quasi incredibile se ne parla per qualche giorno, per poi far ripiombare tutto nel dimenticatoio fino alla tragedia successiva), è quello del caporalato, una denominazione in parte fuorviante che ricomprende realtà eterogenee. Nelle considerazioni che seguono mi riferisco in particolare al settore agricolo. La via maestra per aggredire le condotte delinquenziali in questione è ovviamente l’invio degli ispettori del lavoro (agli orari e nei luoghi adatti, mirando a certe condotte specifiche), il che però a quanto pare non avviene nella misura e con le modalità appropriate. Esistono poi figure di reato quali ad esempio la riduzione in schiavitù o l’intermediazione illecita di manodopera, che all’evidenza non sono state finora capaci di rintuzzare il fenomeno. Occorre peraltro fare attenzione nelle definizioni e nelle distinzioni. Per un verso, potrebbe esservi un’intermediazione illecita che gestisce il lavoro in nero, limitandosi a violare normative di sicurezza, previdenziali e così via. Ma ve n’è un’altra che tiene sistematicamente in pugno i lavoratori, realizzando con le maniere forti un loro sfruttamento eccessivo. Ciò avviene non soltanto tramite ricatti economici (“se non fai così non lavori più”), ma anche e soprattutto usando la coartazione fisica o la sua minaccia. Inoltre, non è affatto detto che siano sempre i cosiddetti caporali a abusare dei lavoratori. Potrebbero esservi datori di lavoro che inseriscono direttamente certe “risorse umane” nella propria organizzazione, e comunque sono responsabili dei trattamenti disumani di cui tante volte hanno riferito le cronache. In entrambi i casi, i comportamenti sembrerebbero non già limitrofi bensì sovrapponibili al metodo mafioso: coordinamento organizzativo, intimidazione, assoggettamento, uso o evocazione della violenza, estorsione di vantaggi ingiusti, imposizione di omertà, aggressioni e talora uccisioni per coloro che si ribellano. Certamente questa scandalosa emergenza è indegna di un paese civile.
In conclusione, la politica antimafia è un patrimonio inestimabile, di cui qui ho toccato soltanto alcune componenti. Bisogna preservarla, aggiornarla, manutenerla, valorizzarla, forse immaginandone pure qualche estensione inconsueta.
Riferimenti
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