Lia Sava e il welfare mafioso: oltre al recupero dei detenuti dare lavoro alle loro famiglie
“Le stragi hanno letteralmente cambiato la mia vita, se non ci fossero state avrei proseguito il percorso da giudice civile scelto da ragazza. Invece ho pensato ci potesse essere un altro modo per dare una mano a quei colleghi arrivati in Sicilia da tante regioni d'Italia nel 1992. C'era questo grosso slancio, si capiva che eravamo in guerra, non avevamo neanche 30 anni e volevamo aiutare questo Paese ferito”. Così Lia Sava, da un mese e mezzo procuratrice generale di Palermo, originaria di Bari, ricostruisce il clima del dopo stragi coinciso con il suo ingresso nella magistratura. “Appena avuta la possibilità ho lasciato la pretura civile e fatto prima il Pm a Brindisi applicata alla Dda di Lecce – racconta – e poi a fine '97 ho seguito Giancarlo Caselli in procura a Palermo. Dal 2013 sono stata nel distretto di Caltanissetta”.
Ultimo incarico rivestito quello da procuratrice generale, prima di ricoprire lo stesso ruolo nel capoluogo. “Per la mia generazione Falcone e Borsellino sono dei miti – dice, indicando le foto dei due giudici alle pareti del suo ufficio al Palazzo di giustizia di Palermo – da giovane magistrato ho avuto la fortuna di incontrarli. Stavo seguendo dei corsi organizzati dal Csm per la formazione di noi uditori giudiziari, Falcone per la criminalità organizzata, mentre in tema di reati contro la pubblica amministrazione avevamo come docente Francesco Saverio Borrelli. Borsellino invece l'ho incontrato nei 57 giorni drammatici prima della strage di via D'Amelio a un convegno organizzato da Magistratura indipendente a Giovinazzo (Bari). Era un sabato assolato di fine giugno, arrivai poco prima e il giudice Borsellino era già lì, indossava una Lacoste color carta da zucchero. Ricordo che ebbe parole di incoraggiamento per noi giovani magistrati, nonostante quel suo sguardo triste, laconico e concentrato che aveva anche Falcone. Quei giorni mi sono venuti in mente in questi anni, quando mi sono occupata del processo Capaci bis e del Borsellino quater, ho provato una particolare emozione nel maneggiare verbali e documenti con la loro grafia e le firme dei due giudici”.
Sulle stragi abbiamo delle verità ancora parziali, lei ha parlato di un “doppio cantiere” ...
Mancano dei pezzi che potrebbero riguardare i cosiddetti concorrenti esterni, cioè entità esterne a cosa nostra che potrebbero aver dato un ausilio alla realizzazione delle stragi. Le sentenze del Capaci bis in Cassazione e quelle passate in giudicato del Borsellino quater hanno detto che ci sono ancora delle piste da esplorare. Le procure di Palermo, Caltanissetta, Reggio Calabria, Firenze dovranno cercare la verità a 360 gradi, sotto l'egida della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo voluta proprio da Falcone. Uno dei grandi collaboratori di giustizia, Antonino Giuffrè, riferendosi alla fase antecedente alle stragi parla di 'tastata di puso' (tastata di polso, ndr) cioè una sorta di sondaggio che cosa nostra farebbe tra favorevoli e contrari a un'esecuzione in determinati ambienti: si parla di servizi segreti e massoneria deviati, imprenditoria collusa con la mafia... cosa nostra capisce che l'eliminazione di Falcone e Borsellino è 'benvista' o quantomeno non ostacolata da queste forze, e a seguito di questa 'tastata di puso', di questi contatti informali, si arriva alla loro uccisione. In queste dichiarazioni generiche ci sono spunti per proseguire le indagini.
Secondo quanto emerso dalla relazione della Direzione investigativa antimafia del primo semestre scorso, durante la pandemia da Covid-19, e in particolare nei mesi del lockdown, cosa nostra avrebbe cercato di 'recuperare e accrescere il proprio consenso sul territorio anche mediante forme di sostegno nei confronti di famiglie, esercenti e imprenditori in crisi di liquidità'.
Le organizzazioni di stampo mafioso vivono non solo del reato di associazione 416bis, ma sono uno strumento di controllo del territorio che esercita il consenso in forme che a volte non si cristallizzano in un fatto di reato, quanto in un modo di insinuarsi nel vivere sociale. Abbiamo verificato che durante il lockdown in certi quartieri di Palermo la mafia è intervenuta, distribuendo le buste della spesa o prestando grandi somme di denaro alle imprese. Questo perché gli aiuti dello Stato sono arrivati in ritardo. Noi dobbiamo dare risposte in tempi rapidi, la burocrazia va velocizzata, la migliore politica deve fare delle leggi in grado di offrire soluzioni a questi problemi, altrimenti se non arriviamo noi come Stato arriva l'antistato. Pensiamo ad esempio alla regolamentazione dei rapporti di confine: se una sentenza civile arriva dopo tanti anni, nei piccoli centri c'è la tentazione di rivolgersi al capomafia che in breve tempo risolve tutto. Non possiamo permettere che la mafia subentri ancora alle inefficienze dello Stato.
Nella relazione della Commissione Antimafia dell'Ars si è tornati a parlare di 'mafia dei pascoli'. Cosa sta cambiando?
Nei momenti di crisi la mafia sfrutta tutte le forme di guadagno che nei secoli ha già sperimentato. Il fenomeno dell'abigeato, cioè il furto di bestiame, che si pensava fosse scomparso, in effetti esiste tuttora e si è rafforzato dietro l'egida di cosa nostra. La crisi economica fa tornare in auge delle forme di approvvigionamento della ricchezza che la mafia non aveva accantonato, ma che adesso realizza in maniera più pregnante sfruttando la crisi.
Sul sito del centro Pio La Torre abbiamo ospitato una riflessione della ricercatrice tedesca Theresa Reinold che, a proposito di mafie globali e infiltrazioni in Germania, nel fare un confronto con l'Italia racconta una grande apatia e rimozione della mafia da parte dell'opinione pubblica tedesca dopo la strage di Duisburg e di resistenze in ambito europeo nella ricezione di leggi come quelle sulla confisca e il riutilizzo sociale.
La nostra è una legislazione all'avanguardia che non ha eguali per completezza e perfezione tecnica, ma a fronte di una legislazione presa a modello da altri Paesi europei abbiamo una burocrazia troppo lenta e dei tempi dei processi eccessivamente lunghi che stiamo cercando di velocizzare sfruttando i fondi del Pnrr. Risorse su cui dobbiamo vigilare per evitare che le mafie con la loro fluidità si inseriscano illecitamente. Il meccanismo della confisca è estremamente complesso e articolato, spesso ci è capitato di sentirci chiedere da colleghi di altre realtà giudiziarie come funziona esattamente. Solo chi ha tragicamente sperimentato il fenomeno della criminalità organizzata in tutta la sua drammaticità può capirlo e non lo può mettere in discussione. Come il 41bis e l'ergastolo ostativo, che noi comprendiamo perché veniamo da una vera e propria guerra alla mafia. È tutto un gioco di equilibri che va calato nella realtà di un determinato territorio.
Dobbiamo a Pio La Torre una legge sulla confisca che ciclicamente però viene criticata.
Bisogna salvaguardare con i denti questa intuizione, ripresa da Falcone, del 'seguire i soldi' e attaccare le mafie sul versante patrimoniale, ma occorre aprirsi a quelle proposte che possono velocizzare il riutilizzo del bene e la reimmissione nel mercato di società o imprese risanate. Non possiamo consentire che vengano confiscate imprese svuotate o creare un danno quando dal sequestro alla confisca passano anni senza che ci sia riutilizzo sociale. Dobbiamo impedire che uno strumento straordinario come questo faccia perdere lavoro e ricchezza.
Lontani gli anni in cui Libero Grassi denunciava in solitudine il pizzo, eppure le denunce sono ancora poche.
Si paga ancora tanto e troppo, questo significa che nonostante l'impegno dei singoli e delle associazioni qualcosa non ha funzionato. Occorre far capire alle persone che se denunci lo Stato ti accompagna con una legislazione all'avanguardia e che se tutti denunciassero verrebbe meno la possibilità di essere un bersaglio. Lo Stato non lascia soli. E poi, oltre al recupero dei detenuti dobbiamo dare un lavoro alle loro famiglie, aiutare mogli e figli di quelli che arrestiamo, renderli autonomi, altrimenti si crea un legame perverso, malefico e fetido tra la mafia e quella famiglia. Non basta mandare in carcere, dobbiamo sottrarre ai quartieri il consenso della mafia. Non ho la bacchetta magica per farlo, ma so che se il capomafia continuerà a dare soldi per le spese legali alla famiglia di un detenuto, agli occhi dei loro figli come Stato avremo fallito. Dobbiamo creare una cultura etica nei quartieri, solo così potremo favorire lo sviluppo economico e incoraggiare altre imprese a investire in Sicilia. Se consideriamo i costi che comporta ad esempio la vigilanza di un cantiere per evitare intimidazioni, il danno prodotto dalle mafie non incide solo a livello microeconomico ma anche macroeconomico, perché scoraggerebbe qualunque investitore.
Ultimi articoli
- Ovazza, l'ingegnere ebreo comunista
padre della riforma agraria - Uno studio sui movimenti
studenteschi e le università - Le reti di Danilo Dolci
per la democrazia diretta - I molti punti oscuri
del consumo di droghe - La “vita online”
di tanti giovani
sedotti
dal mondo digitale - Non solo Cosa nostra,
ecco le mappe
della mafia in Sicilia - Don Ignazio Modica,
storia del prete
che sfidava la mafia - Il progetto educativo
indaga sulle droghe - In piazza la protesta contro
le manovre che pesano
sui lavoratori - Due anni fa l'addio
Il ricordo di Nino Mannino