Nino Mannino, l'uomo del Pci
che parlava
con il popolo
Società | 24 novembre 2024
Da due anni Nino Mannino non c’è più. Siamo tornati a ricordarlo insieme all’Istituto Gramsci siciliano.
È un dovere da parte di due associazioni a cui Nino era molto legato (era stato anche presidente del centro Pio La Torre), organizzare un ricordo e prendere lo spunto per tornare a confrontarci non solo su ciò che è stato Nino e la funzione che ha svolto la sinistra, ma anche su ciò che è oggi. La nostalgia non può e non deve prevalere, semmai serve ragionare sui destini delle forze progressiste, sull’identità della sinistra ed il suo radicamento nella società. Il ricordo di Nino passa necessariamente da qui, dalla necessità, e dalla voglia, di ricostruire un movimento che sappia parlare il linguaggio delle fasce più deboli della società.
Nino Mannino appartiene a quella generazione del Pci che prende in consegna il partito da chi ha vissuto il fascismo e partecipato alla resistenza. Una generazione forte sul piano culturale, abituata a vivere l'azione politica come azione di massa. Nino Mannino la interpretava in modo completo. A questo modello e modo di vivere la politica è rimasto fedele fino all’ultimo.
Era, quella, una generazione che ha vissuto, e costruito, una dimensione di massa, innanzitutto sociale, di "classe", della lotta alla mafia. Di classe, perché il mafioso ed il sistema su cui ruotava rappresentavano l’avversario diretto del movimento contadino e del sindacato. La mafia, infatti, era intimamente connessa al sistema economico siciliano del tempo: con il mondo agrario prima e quello dell’aggressione edilizia alla città poi. Con quello industriale, infine: basti qui ricordare i Cantieri Navali e la Sit Siemens, un tempo Elsi, nella speranza coltivata da sempre che un importante sviluppo industriale avrebbe rappresentato una faccia della modernizzazione di cui avevamo bisogno, legati come eravamo, agli inizi degli anni ’60, a baronie decrepite e parassitarie che succhiavano il sangue della Sicilia e dei siciliani. Insomma, col cambiare dei tempi cambiava anche la mafia, che cresceva, si rafforzava e intrecciava stabilmente il suo rapporto con la politica, fondato sulla capacità di orientare la spesa pubblica, di renderla improduttiva e di essere un argine alla crescita della sinistra e del partito comunista in particolare. Una fase, quindi, legata “all'accumulazione primitiva" ed alla spesa pubblica, all’accaparramento delle risorse pubbliche. Questa visione d'insieme del fenomeno, fin dalle sue radici, ci ha consentito un'analisi piena, rispondente alla realtà, anche nella fase successiva, quella della globalizzazione mafiosa con la raffinazione e la distribuzione dell'eroina e, contemporaneamente, della fase eversiva e stragista. Nino era cresciuto politicamente in quella fase, degli anni ’60, ed ebbe modo di vivere una stagione straordinaria di lotte sociali e politiche. Divenne dirigente sul “campo”.
Ed era, infatti, uno dei pochi in grado di "tracciare" l'organizzazione mafiosa, i suoi legami, i suoi collegamenti storici e la provenienza stessa dei suoi uomini, ed in grado di mettere a fuoco gli elementi di rottura necessari. Come La Torre, come Macaluso. E forse, anzi senza dubbio, per questa caratteristica era tra quelli che resistette alle larghe intese al Comune di Palermo, a costo di apparire decontestualizzato di fronte allo sviluppo della politica di unità nazionale della fine degli anni '70. Era segretario della federazione ed era dunque il primo responsabile di quel cambiamento, così intenso politicamente e rischioso sul piano dell’immagine del Pci. Passaggio delicato e lacerante, quello, in cui le scelte politiche nazionali incontravano e talvolta si scontravano con la dura legge delle realtà locali. E Palermo era un caso assolutamente particolare perché qui, nella capitale della mafia, gli equilibri politici e quelli mafiosi erano un tutt’uno. In questo senso, quelli che hanno conosciuto Nino ed hanno lavorato con lui, hanno avuto il privilegio della conoscenza della storia di Palermo e della Sicilia legata alle contraddizioni più profonde di un sistema politico-affaristico-mafioso opprimente e violento. Conocenza delle persone, del loro retroterra, degli interessi che rappresentavano. E poi gli uomini delle istituzioni e i mafiosi di quartiere, piccoli e grandi, importanti e meno in un triste e desolante connubio. Nino non attingeva, come si è soliti fare adesso, alle risultanze processuali, ma alla conoscenza del fenomeno. Come La Torre. Si potrebbero aggiungere mille aneddoti sulle sue caratteristiche politiche e sulla sua fermezza sul piano dei principi.
Gli mancava, dopo la Bolognina, il suo partito, con le cose belle e quelle negative; gli mancava la lotta politica ormai rifugiatasi nei “social”. Era un uomo colto ed un dirigente attento, ma aveva quella caratteristica, tutta sua, che era la semplicità del lessico e la simpatia del capo. Noi tutti eravamo affezionati al dirigente politico e affascinati dalla sua umanità. È stato un dirigente amato e popolare ed ha insegnato tanto a tantissimi di noi. Per questo se ne è andato non solo un grande dirigente, ma un uomo giusto. Non lo scorderemo mai perché appartiene alla parte migliore della nostra storia.
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