Oltre lo Stretto saltano le “regole”, ogni boss fa quel che vuole
Società | 11 novembre 2024
“Passando lo stretto di Messina uno può fare e sfare tutto quello che gli passa per la mente”. Una regola non scritta, ma valida in Cosa nostra. Per questo motivo Bernardo Provenzano, il boss di Corleone, dopo l'arresto del compare Totò Riina, prese tale decisione dopo una iniziale posizione “mediana” (assunta per non scontentare alcuna delle parti in causa) si dimostrò concorde nella prosecuzione della linea stragista decisa da Totò Riina a condizione che la stessa trovasse sul continente il suo momento di attuazione. In Cosa nostra dopo l'arresto di Riina si formarono due diversi orientamenti rispetto alla linea da tenere in merito alla campagna stragista avviata nel 1992. Vi era un gruppo di “oltranzisti” che intendeva continuare a percorrere la strada già intrapresa e di cui facevano parte Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro.
Vi erano i “moderati”, che consideravano controproducente la ripresa della strategia stragista e di cui facevano parte Raffaele Ganci, Salvatore Cancemi, Michelangelo La Barbera ed anche Salvatore Biondo “il corto”, che aveva preso il posto di Salvatore Biondino nella reggenza del mandamento di San Lorenzo.
Tra i collaboratori che hanno indicato e fornito particolari sulla “divisione di vedute” all'interno di Cosa nostra c'è stato Salvatore Cancemi coinvolto nei preparativi e nelle esecuzioni degli omicidi dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Fece da vedetta alla squadra che piazzò e fece esplodere la bomba a Capaci che uccise Falcone, sua moglie e tre uomini della scorta sull'autostrada A29. Cancemi inizialmente negherà di aver partecipato all'omicidio Borsellino, ma dovrà ammettere il suo coinvolgimento quando altri due pentiti, Calogero Ganci e Giovan Battista Ferrante, lo chiamarono in causa nel 1996. Cancemi descriverà la celebrazione della vittoria seguita all'attentato di Capaci quando Totò Riina ordinò dello champagne francese e mentre gli altri brindarono, Cancemi e un altro futuro pentito, Santino Di Matteo, si guardarono scambiandosi una cupa valutazione su Riina e sul loro futuro: “Questo cornuto sarà la rovina di tutti noi”. Difatti come accadde anche ad altri, Cancemi non si riconosceva più nella deriva sanguinaria imboccata da Riina; aveva partecipato a tutte le riunioni in cui la Commissione aveva deciso di andare allo scontro frontale con lo Stato avvertendo una forte sensazione di disagio. Nell'ottobre del 1992 fu costretto a darsi alla latitanza poiché accusato dell'omicidio dell'eurodeputato democristiano Salvo Lima, assassinato a Palermo sette mesi prima.
Dopo l'arresto di Riina e il cambio della guardia con Bernardo Provenzano, Cancemi prese coraggio e manifestò le sue forti perplessità circa la gestione complessiva di Cosa nostra inimicandosi zu Binnu. Quando questi lo convocò con urgenza tramite un pizzino, Cancemi, temendo che si trattasse di una trappola, alle 5.30 del 23 luglio 1993 si consegnò spontaneamente ai carabinieri di piazza Verdi a Palermo, dichiarando che alle 7 avrebbe dovuto incontrarsi con il latitante Pietro Aglieri, capomandamento di Santa Maria di Gesù, per poi raggiungere Provenzano in una località segreta, offrendosi di aiutarli a organizzare una trappola; l'informazione però venne considerata non veritiera dai carabinieri, i quali erano convinti che Provenzano, introvabile da quasi 30 anni, fosse morto poiché dopo un decennio la moglie e i figli erano tornati a vivere e a lavorare a Corleone, decidendo quindi di non sfruttare l'occasione. Cancemi ai magistrati che gli chiesero se dopo l'arresto di Riina la strategia di Cosa nostra andava avanti disse: “Lo posso dire con assoluta certezza. Dopo le stragi di Falcone e Borsellino con Riina mi sono visto più volte e, quando si parlava andavamo sull'argomento, lui diceva che le cose andavano bene, dovevamo avere un po' di pazienza, ma che le cose andavano bene, diceva sempre che ci voleva pazienza che 'le cose camminano bene'. Poi posso aggiungere che quando mi sono incontrato con Provenzano, che Riina era già stato arrestato, anche a Provenzano ho fatto la stessa domanda, se ricordo bene ci dissi: zu Bino, ma diciamo a che punto siamo? Le cose come vanno? Mi rispose: Totuccio, stai tranquillo che le cose stanno andando avanti per come li portò avanti u zu Totuccio, quindi.... u zu Totuccio significa Riina. Quindi io questa affermazione l'ho avuta anche fatta da Bernardo Provenzano”.
Fu immediatamente dopo l'arresto di Salvatore Riina che all'interno di Cosa nostra cominciò a serpeggiare il malcontento, che se prima era tenuto nascosto dopo l'arresto del capo dei capi comincia a farsi più evidente. Proprio in virtù di questa divisione di intenti coloro che erano determinati per l’organizzazione di ulteriori attentati decisero, attraverso alcune riunioni tenutesi tra il gennaio e il marzo del 1993 di portare “sul continente” la campagna stragista, nella consapevolezza che non avrebbero ottenuto l'appoggio da parte degli altri capimandamento (ed anzi avrebbero ricevuto il loro veto in caso di una decisione assunta in una riunione plenaria della commissione) per la realizzazione di ulteriori attentati sul suolo siciliano. A tal proposito i collaboratori di giustizia avevano infatti spiegato che, secondo le regole di Cosa nostra, diversamente da quel che riguardava la Sicilia, “passando lo Stretto di Messina uno può fare e sfare tutto quello che gli passa per la mente”.
A precisare meglio questa circostanza ci ha pensato Giovanni Brusca, il quale ai magistrati di Firenze ha detto: “Il progetto inizialmente era quello di portare a termine sia l'attentato a Maurizio Costanzo sia una serie di attentati in Sicilia; quelli in Sicilia non sono stati potuti portare a termine, in quanto altri capimandamento non hanno voluto. E fuori dalla Sicilia, siccome per le regole di Cosa nostra, passando lo stretto di Messina, uno può fare e sfare tutto quello che gli passa per la mente, che sia uomo d'onore, che non sia uomo d'onore, le regole valgono solo per la Sicilia. Fuori dalla Sicilia quello che ognuno voleva fare fa. Quindi, (dato) che si doveva fare un attentato fuori dalla Sicilia che riguardava Maurizio Costanzo o altri personaggi, nessuno doveva chiedere niente a nessuno. Ma chi sia stato il primo a dare questo star bene non lo so, poteva essere stato Graviano, Bagarella o Matteo Messina Denaro”.
“Agire fuori dalla Sicilia – ha continuato Brusca – era più semplice. In Sicilia c'è Cosa nostra, prendiamo ad esempio Palermo (…) ogni borgata ha la sua famiglia, succedendo una strage lì, ci può essere, vanno incontro a processi tutti i componenti della famiglia, perché sono riconosciuti. Con i pentiti che ci sono ormai si sa tutto. Si sapeva già tutto allora. Quindi siccome il rappresentante di quella famiglia poteva mettere il veto, e se non lo metteva potevano andare a discussione e a guerre, cioè a separarsi tra di loro, per evitare tutto ciò, si è deciso per il nord. In quanto al nord, non essendoci Cosa nostra, nessuno poteva venirsi a lamentare e dire 'ma che hai fatto, che non ha fatto... perché hai messo la bomba nel mio quartiere, perché non te la mettevi nel tuo quartiere'”.
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