Nasce in Africa la più grande area di libero scambio del mondo

Economia | 26 settembre 2019
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Ci siamo persi la notizia. Sono quasi due anni che in Africa si lavora alle fasi procedurali della costituzione di una area di libero scambio. Per numero di stati che ne fanno parte e ampiezza della popolazione che vi rientra supera di molto ogni precedente esperienza storica del genere negli altri continenti. Ma sulla stampa italiana questo lavoro preparatorio assieme alla sua formale approvazione è passato quasi sotto silenzio. In particolare nei notiziari televisivi. Occupati per un terzo dalla puntuale registrazione di ogni comizio, tweet, dichiarazione, vacanza con la fidanzata, beach tour, sospiro, ruttino, selfie di Salvini e Di Maio, per un terzo dalle notizie e dagli approfondimenti sugli sbarchi di immigrati (ma pochissima attenzione per i nostri ben più numerosi meridionali che emigrano al Nord e all’estero) e per un terzo dalle notizie di cronaca che si devono pur dare, i TG di casa nostra – del servizio pubblico Rai e delle emittenti private – disertano o riservano spazi marginali, se non legati alla stretta attualità, alla politica internazionale e a ciò che succede nel mondo. Figuriamoci quanto possa interessare l’Africa, a parte la narrazione sugli esodi etichettati per definizione “biblici” di migranti dal Continente Nero nel nostro paese. Ingigantiti ad arte come consistenza e centralità informativa. Su cui si calca la mano specie in alcune reti e trasmissioni che da anni non fanno altro che alimentare ogni sera le paure della gente.

Non siamo i soli a lamentarci della scarsa attenzione riservata dalla stampa italiana all’accordo di libero scambio tra paesi africani. Anche Elisa Serafini su “Linkiesta.it” in un articolo dell’11 luglio scorso dal titolo “Il nuovo motore del mondo: ecco perché sarà il libero mercato a salvare l’Africa” lamenta che “ha avuto poco spazio sui media italiani la notizia dell’avvio dell’AfCFTA, l’accordo di libero scambio tra paesi africani, firmato da 54 stati (tutti gli stati africani, tranne l’Eritrea), la cui implementazione dei processi preliminari è partita il 1 luglio 2019. Si tratta di uno degli accordi di commercio internazionale più importanti della storia: l’Africa diventerà l’area di libero scambio più vasta del pianeta, con un mercato di 1,2 miliardi di persone con un Pil combinato che supera i 2500 miliardi di dollari.

Un processo che ha visto la partecipazione di economie in crescita, desiderose di aumentare i propri scambi internazionali, in vista dell’atteso boom demografico. L’Africa è un continente ricco di esperienze industriali e commerciali, e sta trovando, in questi anni, una nuova rinascita, guidata da alcune delle economie più in crescita al mondo, come quelle di Nigeria, Etiopia, Mozambico e Guinea. I dati economici, demografici e di sviluppo del continente africano fanno ben sperare gli osservatori internazionali: si stima che, entro il 2050, il Pil aggregato dei paesi africani arriverà a 29 trilioni di dollari (29 mila miliardi di dollari), un importo che supera il Pil di Stati Uniti e Unione Europea, combinati. Si tratta, peraltro, di previsioni che tengono conto dei trend di crescita vissuti, ad esempio, dall’India, dalle economie del Sud America o del Sud Est Asiatico, e che potrebbero trasformare l’intero continente africano.

Il trattato di libero scambio africano permetterà ai paesi di commerciare abbassando dazi doganali, standard, burocrazia, e agevolando allo scambio imprese, cittadini e lavoratori. Un processo del tutto simile a quello promosso dalla “prima” Comunità Europea (oggi Unione Europea), ma che viene reinventato oggi, alla luce delle esperienze mondiali e delle nuove tecnologie. L’Africa si appresta a diventare un importante player dell’economia mondiale. I paesi, uniti (e non divisi da “sovranismi”) contano di acquisire una nuova forza nelle dinamiche geopolitiche capace, si stima, di poter ribaltare gli attuali equilibri politici, economici e anche migratori”.

Come commenta Antonio Gaspari il 15 luglio su www.frammentidipace.it, “mentre sulla rotta atlantica emergenti nazionalismi impongono embarghi, costruiscono muri, stracciano accordi commerciali e minacciano conflitti armati, l’Africa trova l’unità e propone una zona di libero scambio quasi cancellando le tariffe doganali”.


La situazione di partenza e la dipendenza dell’Africa dalle economie cinese ed europee

Ma da quale situazione si parte? La ricostruisce su “Repubblica.it” del 7 luglio Giacomo Zandonini (“Equo e solidale. Africa, in Niger si firma l’accordo di libero scambio per mettere le ali alle economie locali”). “Un intrico malefico di leggi, ordinamenti e prassi commerciali formano il sistema di tariffe doganali che – di fatto – impongono a quasi tutti i paesi africani una dipendenza paralizzante dalle economie europea e cinese. Una frammentazione che ha bloccato gli scambi fra Paesi africani riducendoli al 17 per cento, rispetto al volume intra-asiatico e intra-europeo, rispettivamente del 60 per cento e del 70 per cento. Dunque, una immobilità indotta da sudditanze neocoloniali, da leadership locali corrotte, all’origine di un sottosviluppo cronico e diffuso, a sua volta causa dei flussi migratori verso l’Europa, che ci si illude di poter fermare bloccando i porti di approdo. Insomma, se lungo le corsie dei supermercati di Ouagadougu, di Bamako, Bujumbura o Maputo le penne biro sono francesi, le tavolette di cioccolata solo svizzere, e comunque tutto deve essere importato, dai prodotti derivanti da lavorazione del petrolio, alle macchine agricole, dai prodotti della siderurgia ai motori, ai generatori, alle apparecchiature agricole, il potenziale economico africano non potrà che continuare ad essere mortificato.

La giornata di oggi, 7 luglio, qui a Niamey è destinata dunque ad essere annoverata tra quelle storiche, dopo due anni di negoziati, con l’avvio del vertice straordinario dell’Unione Africana (UA) al termine del quale si spera di potere fissare un sacrosanto accordo di libero scambio (sotto l’acronimo AfCFTA) che ha avuto finora il consenso di 54 dei 55 Paesi del continente, proprio per raggiungere l’obiettivo di un’Africa senza più pedaggi commerciali imposti sulle merci e soprattutto con l’idea di cambiare definitivamente le regole del gioco con le ex colonie e con l’inarrestabile intraprendenza commerciale cinese. Un voltar pagina per dare ossigeno allo sviluppo economico locale, fluidificare il commercio e creare posti di lavoro. Anche se, nel frattempo, sullo sfondo di questo summit tanto atteso, si avvertono le voci degli attivisti, anche questi provenienti da diversi paesi africani, secondo i quali la vera urgenza sono i diritti e la democrazia”.

L’Africa è il continente con il più alto numero di giovani. L’età media della popolazione, nel suo complesso, non supera i 18 anni, e la larga maggioranza ha tra i 16 e i 28 anni. E’ il continente più ricco di materie prime. Dispone di tutte le materie prime utilizzate nei commerci e nelle industrie del mondo. Si stima che il 30 per cento delle risorse minerarie della terra si trovi in Africa, che ha il primato, tra l’altro, di possedere le più grandi riserve al mondo di metalli e pietre preziose, come oro e diamanti. Non c’è materia prima che l’Africa non possegga. Le politiche coloniali ancora dominanti fanno sì che né le popolazioni né il territorio possano effettivamente disporre dei proventi derivanti dalla vendita delle risorse. Nella maggior parte dei casi, le materie prime vengono estratte sfruttando il lavoro minorile, imbarcate su navi e aerei e portate via dall’Africa. Questa logica di sfruttamento fa sì che l’Africa sia anche il continente più povero di infrastrutture, con una grave carenza di strade, porti, ferrovie, scuole, ospedali, università, centrali elettriche.


Le fasi dell’accordo

Scrive “Africa missione-cultura. La rivista del continente vero” il 2 giugno scorso in un articolo dal titolo “L’accordo sull’area di libero scambio africana è in vigore”: “Giovedì scorso è entrato ufficialmente in vigore l’accordo che istituisce l’Area di libero scambio continentale africana (AfCFTA), il progetto di mercato unico promosso dall’Unione Africana che mira ad unire i 55 paesi membri (54 più l’autoproclamata Repubblica democratica araba sahrawi) eliminando progressivamente da qui al 2022 dazi doganali ed altre barriere tariffarie interne. L’entrata in vigore dell’accordo, sottoscritto il 21 marzo 2018 a Kigali (Ruanda) da 44 paesi, è stata possibile grazie alla ratifica da parte del Parlamento del Gambia, avvenuta il 3 aprile scorso, consentendo così di raggiungere la soglia minima richiesta di 22 ratifiche, vale a dire la metà dei firmatari. (…) Allo stato attuale, come riporta Africanews, gli unici tre stati che non hanno firmato sono la Nigeria, il Benin e l’Eritrea. Il caso della Nigeria, prima economia continentale, ha suscitato diverse perplessità fra gli altri Paesi africani. Sembra chiaro che vi siano ragioni legate a vantaggi economici che la Nigeria non vuole perdere, non a caso le autorità hanno annunciato che devono prima procedere a consultazioni con i propri stakeholder interni. Per Benin ed Eritrea non c’è stato ancora alcun annuncio, ma l’adesione dell’Etiopia potrà forse agire da traino nei confronti di Asmara con la riapertura delle relazioni diplomatiche tra i due paesi.

Il prossimo, decisivo, passo sarà il lancio della “fase operativa”, che prenderà il via durante il vertice dei capi di stato e di governo dell’Unione Africana in programma in Niger il prossimo 7 luglio. Da qui inizierà il periodo transitorio in cui i singoli governi dovranno costruire i protocolli e le regole necessarie al funzionamento effettivo dell’area di libero scambio, ad ora esistente solo sulla carta”.


I vantaggi dell’AfCFTA per i paesi africani

Torniamo a quanto scrive Gaspari. “Con l’accordo continentale di libero scambio si pone fine agli impedimenti che limitano i commerci intra ed extra Africa. La riduzione delle barriere commerciali faciliterà e allargherà enormemente gli scambi. (…) Secondo gli esperti si tratta dell’accordo più rilevante e più vasto da quando, nel 1995, è stata fondata l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). E’ una novità di carattere storico anche perché vede i paesi africani uniti in un processo di liberazione dalle politiche coloniali e neocoloniali, con l’obiettivo di porre fine alle ingiustizie, alla vessazioni, allo schiavismo vecchio e nuovo, allo sfruttamento di uomini e risorse”.

Come precisa Sara Nicoletti del Cesi (Centro Studi Internazionali) il 13 luglio scorso in una analisi dal titolo “Africa, cosa cambierà con l’accordo di libero scambio AfCFTA)” su “Policy Maker”, “l’obiettivo principale dell’AfCFTA è quello di fornire dinamicità all’economia e, soprattutto, al commercio continentale africano, tradizionalmente stagnante, e, seguendo l’esempio europeo, di favorire una maggiore collaborazione politica tra gli stati dovuta a un più voluminoso scambio di beni e servizi e alla necessità di armonizzare regole e standard. Questo progetto è in linea con gli obiettivi di Sviluppo Sostenibile fissati dalle Nazioni Unite per il 2030, ma è anche un processo verso il raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda Africana 2063, che prevedono il miglioramento della qualità della vita, la stabilizzazione economica e l’integrazione politica del continente. La tesi del beneficio economico dell’AfCFTA è comprovata dalle ultime previsioni effettuate dalla Banca dello Sviluppo Africano e dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UN Conference on Trade and Development-UNCTAD). Secondo tali dati, infatti, con l’area di libero scambio si avrebbe un incremento del commercio tra l’Africa e il resto del mondo del 2,8 per cento rispetto alle previsioni effettuate per il 2022 in assenza dell’accordo. Allo stesso modo, il peso del commercio intra-africano sugli scambi commerciali totali del continente passerebbe dal 10,2 per cento al 15,5 con un aumento del 52,3 per cento rispetto alle proiezioni per il 2022. A beneficare maggiormente di questo incremento dell’attività commerciale africana sarebbero il settore agricolo e quello industriale. La diminuzione degli introiti derivanti dalle tasse doganali verrebbe compensata da un aumento del reddito e del salario reale, come conseguenza possibile di un aumento dell’export.

Inoltre, una delle conseguenze principali dell’implementazione dell’AfCFTA sarebbe la riduzione del tempo trascorso alla dogana per far sì che il passaggio delle merci venga approvato. La procedura è infatti estremamente lunga e costosa poiché richiede un numero elevato di documenti non sempre facilmente reperibili, e poiché solitamente gli Stati africani applicano le tasse doganali più alte proprio agli Stati confinanti. La riduzione delle tasse doganali al livello della “Most Favoured Nation” (MFN), in altre parole corrisponde alla normalizzazione dei rapporti commerciali tra gli Stati africani tramite l’applicazione a ognuno di essi del dazio più basso applicato da ciascun paese.

Un ultimo vantaggio dell’incentivazione del commercio interno al continente africano sarebbe la possibilità di assorbire più facilmente i prodotti manifatturieri. Infatti, essi sono poco richiesti sul mercato internazionale extra-continentale, ovvero negli scambi commerciali con l’Europa, l’America e l’Asia, che favoriscono invece l’importazione dall’Africa di materie prime. Una rivitalizzazione del mercato artigianale africano potrebbe contribuire ulteriormente a rendere l’economia del continente più dinamica, portando a compimento l’obiettivo dell’AfCFTA”.


Gli ostacoli da superare

“Tuttavia – prosegue l’analista - gli ostacoli a una implementazione effettiva dell’area di libero scambio sono numerosi, nonostante la volontà politica dei 54 governi dimostrata a Niamey. Innanzitutto il commercio intra-africano rappresenta una percentuale molto bassa degli scambi commerciali totali dell’Africa. La percentuale di commercio interno in Africa sub-sahariana si aggira intorno al 10 per cento mentre i maggiori partner commerciali dei paesi africani sono Unione Europea e Stati Uniti. La carenza di commercio interno non è dovuta solamente alla condizione disastrosa delle infrastrutture africane, ai costi dei trasporti e alle pratiche burocratiche da sbrigare alla dogana. Gli Stati africani sono anche poco incoraggiati a commerciare tra loro dal fatto che i paesi occidentali spesso si offrono di commerciare con l’Africa a tasso zero come aiuto allo sviluppo. Pertanto i Paesi africani sono più incentivati a commerciare con l’estero che tra di loro. Se da una parte è vero che la riduzione dei dazi doganali prevista dall’AfCFTA allevierebbe tale problema, il commercio inter-africano rimane a livelli talmente bassi che difficilmente l’incremento previsto dall’accordo potrebbe essere in grado di rilanciare le economie africane. Un’altra questione da non sottovalutare è la scarsa differenziazione del mercato africano. Questo ha due conseguenze fondamentali: per prima cosa, i paesi africani tendono a importare dall’estero piuttosto che dai loro vicini, poiché hanno tutti capacità e necessità simili e perciò non sono complementari. In secondo luogo, un’area di libero scambio che abbia l’ambizione, anche remota, di diventare un mercato unico, deve essere capace di creare al suo interno le cosiddette catene di valore globale. Ciò significa che all’interno dell’area devono essere presenti alcuni Paesi che esercitano un’economia centrale, ovvero ospitano le grandi aziende e multinazionali, mentre gli altri Paesi dovrebbero costituire invece le cosiddette economie “di fabbrica” ovvero quelle economie che forniscono forza-lavoro e prodotti intermedi. In Europa questa distinzione è in atto tra i Paesi nord-occidentali e quelli orientali (di solito quelli con accesso all’Unione successivo al 2004). In Africa tutte le economie sono “di fabbrica”, mentre mancano delle economie centrali che rendano la catena operativa.

Il problema non risiede soltanto nella struttura economica africana e, come è stato detto, nella mancanza di infrastrutture che rende gli spostamenti di merci costosi e difficili, ma anche nella formulazione dell’accordo. Infatti il libero movimento di beni e servizi non può prescindere dal libero movimento delle persone, che invece è ancora fortemente soggetto a impedimenti nel contesto africano, dove ottenere un visto per un Paese confinante può essere molto difficoltoso. A questo bisogna poi aggiungere la scarsa sicurezza della maggior parte dei confini africani, dove la corruzione dilagante e la debolezza delle istituzioni rende il libero passaggio delle merci rischioso ed esposto ad attività illegali”.


Non solo libero scambio. Necessari diritti e democrazia

Nel frattempo, sullo sfondo di questo summit tanto atteso, si avvertono le voci degli attivisti, anche questi provenienti da diversi paesi africani, secondo i quali la vera urgenza sono i diritti e la democrazia.

“Se l’AfCFTA, che è entrata in vigore a fine maggio ed inaugura oggi la sua fase operativa – rileva Zandonini - liberalizzerà il commercio intra-africano, creando una unione doganale su gran parte dei prodotti africani, senza imporre barriere doganali esterne, per decine di attivisti africani la circolazione di diritti e libertà democratiche si stanno restringendo pericolosamente.

“Il lancio dell’accordo di libero scambio è un grande favore alla comunità internazionale, a cui si chiede in cambio di chiudere gli occhi su violazioni dei diritti umani in Africa” spiega Laurent Duarte, il coordinatore di Tournons la page – “Giriamo la pagina” in francese – la campagna che ha promosso il mini-summit della società civile.

A fare da contrappunto al lancio dell’Area di libero scambio africana, la dichiarazione finale della piattaforma sottolinea come “senza libertà civili e politiche non ci può essere libertà economica, così come non si può contrastare la povertà senza la partecipazione dei cittadini”. Un messaggio – dice Duarte – che “stiamo lanciando anche a livello europeo, perché in nome di sicurezza e immigrazione, si chiudono gli occhi sulle violazioni dei diritti dei partner africani dell’Unione Europea”.


L’area di libero scambio africana, l’Unione Europea e l’Italia

Gia, l’Europa. “E’ opportuno fare un paragone con l’Unione Europea a cui questo progetto si ispira esplicitamente: l’accesso al mercato unico europeo, nonché alle istituzioni dell’Unione – spiega la ricercatrice Sara Nicoletti - è limitato dai cosiddetti “Criteri di Copenaghen”, ovvero dai prerequisiti economici, politici e sociali che devono essere soddisfatti al fine di accedere. Questo serve a tutelare sia i paesi già membri sia i candidati, nel caso le loro economie o gli assetti istituzionali non siano ancora abbastanza maturi. Al contrario, l’accesso all’area di libero scambio africana (sebbene sia opportuno precisare che non è propriamente un mercato unico) è stata aperta a tutti gli Stati africani, indipendentemente dalle loro condizioni economiche, politiche e sociali. Questo rischia, nella migliore delle ipotesi, di rendere l’accordo inefficace in alcuni Paesi; nello scenario peggiore potrebbe danneggiarli con progetti troppo onerosi o con la ulteriore proliferazione di attività illegali alle frontiere non contrastabili dalle autorità. (…) Tuttavia l’ispirazione all’Europa ha prodotto un modello estremamente ambizioso, che per essere applicato necessita di requisiti economici e politici che al momento non sono presenti o non sono presenti a sufficienza sul territorio africano. Pertanto perché esso si realizzi efficacemente e senza incidenti, sarà necessario il supporto di organizzazioni internazionali come l’UNCTAD o il Fondo Monetario Internazionale. Questo aiuto dovrebbe però essere gestito in modo tale da mantenere un equilibrio tra le necessità dell’Africa di appoggiarsi alle istituzioni multilaterali internazionali e il rispetto dell’autodeterminazione africana, con le opportunità e i rischi che ciò comporta”.

Come si dovranno porre i paesi occidentali, in particolare quelli europei, rispetto all’area di libero scambio africana? “In questa condizione il ruolo migliore che potranno avere paesi occidentali - suggerisce Serafini - sarà quello di sostenere l’innovazione tecnologica, i processi di libero scambio e di crescita delle economie. Un continente che cresce avrà la possibilità di migliorare le condizioni di vita dei propri cittadini, incrementando i livelli di istruzione, di ricchezza, di pace. Un continente che commercia, al suo interno e al suo esterno, è un continente che cresce.

L’Italia e l’Europa, però, dovranno fare la loro parte, avendo il coraggio, per una volta, di fare scelte di politiche pubbliche di lungo periodo: abolendo, ad esempio, i dazi sui prodotti africani, organizzando flussi migratori in maniera sicura, ma anche efficace, e sostenendo le imprese e l’iniziativa privata africana. Solo così potremo dirci civili”.

E’ interessante quanto sostiene al riguardo Raniero Sabatucci, ambasciatore dell’Unione Europea presso l’Unione Africana (UA), intervenuto al Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione svoltosi quest’anno dal 18 al 24 agosto: “Se fossi un imprenditore italiano inizierei a posizionarmi in Africa”. “Non pensiamo agli automatismi e ai vincoli dell’Europa” avverte il diplomatico avendo ben chiaro che i Paesi che fanno parte dell’accordo dovranno ridurre il 90 per cento dei dazi sui prodotti importati da altri Stati africani. Un balzo, in termini di competitività.

E aggiunge: “Ci sono decine di paesi coinvolti e decisi a realizzare questo progetto. Non esserlo, cioè non vedere le opportunità per tutti, sarebbe stupido. Non si dimentichi che parliamo di un continente immenso alle nostre porte, con 1,2 miliardi di persone e tassi di crescita impensabili in Europa” (Paolo Viana “Sabatucci. Per le imprese italiane è il momento di posizionarsi in Africa” – Quotidiano “Avvenire”, 22 agosto 2019).

E alla domanda che tocca fili scoperti in ogni città e paesino del nostro continente “Il mercato unico africano tratterrà sul territorio anche i migranti che oggi fuggono verso l’Europa?” il diplomatico risponde: “L’opinione pubblica europea è molto sensibile a questo tema, ma non si rende conto che già oggi l’80 per cento dei migranti africani resta in Africa, cioè si sposta da un paese all’altro ma non viene in Europa. Ovviamente con un maggiore sviluppo ci sarà più lavoro e meno fuga di cervelli e braccia, un esodo che danneggia anche i Paesi africani e che i loro governi vorrebbero interrompere”.

 di Pino Scorciapino

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