Donne a capo dei clan, la mafia si è globalizzata anche nel genere

Cultura | 17 ottobre 2017
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La I sezione della corte d'Appello di Palermo ha da pochi giorni emesso una sentenza di condanna per estorsione a 15 anni ciascuno nei confronti dei capomafia di San Lorenzo Salvatore Lo Piccolo e del figlio Sandro. Insieme ai due boss, è stata condannata a otto anni anche la moglie Rosalia Di Trapani di 67 anni. La donna, secondo la procura di Palermo, in assenza del marito e del figlio latitanti, avrebbe, con grande determinazione, trasmesso messaggi, impartito ordini alla cosca e imposto il pizzo.

Un altro recente caso di cronaca giudiziaria, che ha visto il coinvolgimento di donne nella gestione dell’illecito mafioso, si è registrato a Gela (CL) dove sono state tratte in arresto tre donne mogli di boss detenuti in carcere. L’accusa nei loro confronti è di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti aggravato dal metodo mafioso, estorsione aggravata e danneggiamento nei confronti di imprenditori gelesi. A capo dell’organizzazione scoperta dai carabinieri c’erano Nicola Liardo e Salvatore Crisafulli. I due capi famiglia dal carcere avevano potuto continuare a gestire i loro traffici illeciti grazie all’impegno profuso dalle rispettive compagne Monia Greco e Maria Teresa Chiaramonte, entrambe finite agli arresti domiciliari, e della figlia di Liardo di soli 22 anni, sottoposta all'obbligo di firma.

Da anni le cronache giudiziarie riferiscono di diverse sentenze di condanna nei confronti di donne coinvolte a vario titolo in fatti di mafia. Giovanna Santoro e Maria Stella Madonia, rispettivamente moglie e sorella del capomafia nisseno (CL) Giuseppe “Piddu” Madonia, sono anch’esse un chiaro esempio di come spesso, durante la latitanza o dopo l'arresto di un uomo d'onore, siano proprio le donne a prendere in mano la gestione degli affari dell’organizzazione, diventando un indispensabile elemento di coesione e di continuità tra il boss e la cosca stessa. Per entrambe, nel maggio del 2000 è arrivata una sentenza di condanna rispettivamente a dieci anni di reclusione per la Santoro e a otto anni per Maria Stella Madonia per associazione mafiosa.

Anche Maria Catena Cammarata, sorella dei boss Pino e Vincenzo a capo di Cosa Nostra nissena (CL), dal 1991 al 1996 ha gestito gli affari illeciti lasciati in sospeso dai fratelli latitanti. Arrestata nell’aprile del ’96, per la signora di Riesi nel marzo del 1998 giunge la condanna dal Tribunale di Caltanissetta a sei anni per associazione mafiosa.

Con la stessa imputazione nel maggio 2010 è stata condannata a dieci anni di reclusione dai giudici di Palermo Mariangela Di Trapani, figlia e sorella di uomini d'onore del mandamento di San Lorenzo e moglie del reggente del mandamento di Resuttana Salvino Madonia, killer dell’imprenditore Libero Grassi ucciso nel 1991 per essersi opposto alle richieste estorsive di Cosa Nostra. Mariangela, dopo l’arresto del marito, non si limitava a trasmettere agli affiliati fuori dal carcere le disposizioni del marito e dei cognati, ma impartiva ordini lei stessa. Un vero e proprio uomo d’onore capace di gestire i profitti illeciti del clan valutati in 15 milioni di euro.

Anche l’operazione “Lancio” condotta dai Carabinieri del Ros e del Comando provinciale di Reggio Calabria nel 2012, ha portato al fermo di diciotto presunti fiancheggiatori del latitante Domenico Condello. Di questi sei sono donne accusate, oltre di avere favorito la latitanza del boss, di intestazione fittizia di beni in realtà del Condello.

Nell’ottobre del 2016 la Corte d’appello di Palermo condanna a 14 anni e 6 mesi di reclusione Anna Patrizia Messina Denaro, sorella del boss latitante Matteo, per associazione mafiosa. Secondo l’accusa, la donna non sarebbe stata una mera portavoce delle disposizioni del fratello al clan, ma avrebbe partecipato attivamente con l’organizzazione criminale.

Nei casi ricordati, queste donne hanno avuto un ruolo soprattutto nelle vesti di “supplenti” dei loro congiunti, perché tratti in arresto o latitanti. Si tratta, dunque, di momenti particolarmente critici per la famiglia mafiosa da spingerle ad uscire dalla loro condizione di mogli, madri, figlie e sorelle per diventare protagoniste attive della gestione delle attività illecite.

La loro posizione strategica all’interno dell’universo mafioso è stata accertata anche in momenti non necessariamente di assenza dei propri uomini. Si tratta di donne dello spessore criminale di Maria Filippa Messina, moglie del boss Antonino Cinturino del clan dei Cappello di Calatabiano (CT). La prima donna in Italia a essere sottoposta al 41 bis. (regime di carcere duro) per avere concorso insieme al marito nella gestione di richieste estorsive e usura per miliardi e, dall’arresto di quest’ultimo, per il suo ruolo di guida del clan. Un ruolo che la Messina ha svolto con grande solerzia tanto da spingersi, come rivelano diverse intercettazioni, ad assoldare un commando di killer per assassinare esponenti del clan rivale al fine di affermare la propria autorità sul territorio. Una strage per fortuna mai consumata perché arrestata giusto in tempo.

La stessa caratura criminale di capo clan è stata riconosciuta a Giusy Vitale, sorella di Leonardo e Vito, esponenti di primo piano di Cosa Nostra di Partinico (PA). La Vitale è la prima donna a cui la Procura di Palermo ha contestato il reato associativo. Cresciuta in una famiglia mafiosa della quale non è mai rimasta ai margini, la donna all’arresto dei fratelli ha retto il mandamento di Partinico partecipando in completa autonomia ai summit con gli altri capo mandamento di Cosa Nostra. In una parola “cumanna”. Arrestata nel giugno del ’98 con l'accusa di associazione mafiosa e omicidio, dal 2005 è una collaboratrice di giustizia considerata attendibile.

Non meno rilevante è da ritenersi la condotta criminale di Concetta Scalisi, ai vertici del clan mafioso di Adrano (CT) dalla morte del padre Antonio, del fratello e dall’arresto dei due nipoti. Nel 2005 è stata condannata dalla Cassazione a diciassette anni per associazione mafiosa e concorso in duplice omicidio.

E poi c’è Nunzia Graviano, sorella di Giuseppe e Filippo entrambi ai vertici della famiglia mafiosa di Brancaccio (PA). Condannati all’ergastolo per essere i mandanti dell’omicidio di padre Pino Puglisi e corresponsabili della strage di via D’Amelio in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta, a reggere il mandamento si è adoperata, fino al suo arresto, la sorella Nunzia “a picciridda” che si può considerare una delle prime donne del territorio palermitano ad aver svolto un ruolo di “reggente” all’interno di una famiglia di grosso spessore mafioso. Si tratta di una donna emancipata, intelligente e colta. Tutti fattori che le hanno permesso di gestire in maniera egregia, attraverso investimenti anche all’estero, l’ingente patrimonio del clan frutto di attività illecite, diventando un vero e proprio punto di riferimento per la “famiglia”. Arrestata a Nizza nel ’99 e mai “pentita”, nel novembre del 2000 è stata condannata a cinque anni per associazione di stampo mafioso. Nel novembre del 2011 viene nuovamente arrestata dagli agenti dello Sco della Squadra Mobile di Palermo con l’accusa di essere tornata, dopo la condanna per mafia di qualche anno prima, a occuparsi degli affari del clan.

Ogni donna “d’onore” è protagonista di una storia differente ma tutte accomunate da un unico comune denominatore: l’appartenenza per nascita, per scelta o per loro sventura all’universo mafioso. Le condotte antigiuridiche più comunemente ascritte loro vanno dal favoreggiamento e assistenza ai latitanti, all’usura, dal traffico di stupefacenti al riciclaggio di denaro sporco, fino a giungere all’assunzione di ruoli di leadership nell’organizzazione stessa.

Nonostante, dunque, la mafia rimanga formalmente un’organizzazione monosessuale, di fatto riconosce alle sue donne un ruolo che, pur assumendo connotati ampiamente variabili e con molteplici sfumature, si rivela molto incisivo e visibile. La loro capacità di delinquere, non soltanto nelle vesti di supplenti dei loro uomini in momenti di criticità particolari, ma anche come partecipi attive degli affari della famiglia, è divenuta elemento determinante per la tenuta stessa dell'organizzazione mafiosa.

Diverse indagini condotte in questi ultimi anni dalle forze dell’ordine confermano un irrobustimento dei loro ruoli. Un fenomeno di affermazione di genere che pur trovando una ragionevole spiegazione nel fisiologico processo di emancipazione femminile che, inevitabilmente, ha prodotto cambiamenti anche del loro ruolo nell’universo mafioso, trova motivazioni ancora più profonde nel processo di riorganizzazione avviato dalla mafia al fine di arginare gli effetti destabilizzanti che il fenomeno “pentitismo” da una parte e la conseguente risposta repressiva dello Stato dall’altra, hanno prodotto al suo interno. Le organizzazioni mafiose hanno capito che per garantirsi la sopravvivenza sarebbe stato loro più funzionale avvalersi delle sue donne più capaci e fidate, piuttosto che di fiancheggiatori esterni all’organizzazione, facilmente inducibili al “pentimento”. Una strategia che ha portato alla nascita di organizzazioni sempre più segrete che hanno fortemente limitato l’ingresso al loro interno di nuovi affiliati ritenuti poco affidabili, e dunque pericolosi, preferendo puntare sulle sue donne le quali, al contrario, hanno dimostrato fedeltà, riservatezza e capacità di gestire l’illecito. Qualità queste, che ha fatto ricoprire loro ruoli sempre più autorevoli, ben distanti dal mero favoreggiamento familista per lungo tempo ritenuto l’unico apporto all’organizzazione ipotizzabile per delle donne.

 di Raffaella Milia

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