Le controriforme rafforzano le capacità corruttive delle mafie
Il dibattito avviato dal contributo del presidente del Centro Pio La Torre si è incentrato sulle preoccupazioni derivanti da un prefigurato indebolimento dell’impianto antimafia faticosamente – e drammaticamente – costruito negli ultimi quattro decenni. Si tratta di un argomento condivisibile: perché puntare alla riforma di norme e dunque anche di pratiche e competenze che hanno prodotto un significativo impatto disgregante sulle strutture organizzative delle mafie? Un timore che trova ulteriori elementi di conferma se si allarga lo sguardo alla più ampia agenda decisionale della maggioranza di governo, formata da forze politiche nella cui piattaforma elettorale i temi della lotta alla mafia e alla corruzione sono stati pressoché ignorati, salvo tornare ora surrettiziamente in gioco prefigurando possibili “riforme” – o per meglio dire, ”controriforme” – dell’impianto antimafia, tali da mettere a repentaglio un patrimonio di esperienze e competenze maturate sia nell’azione di contrasto imperniata sull’art. 416 bis che nell’applicazione delle misure di prevenzione.
Eppure quel disegno, ancora soltanto abbozzato, si delinea in realtà come componente di un piano più esteso, in una sorta di “manovra a tenaglia” che sull’altro fronte invece ha già messo a segno i suoi primi inquietanti risultati. L’approvazione della legge di riforma del codice penale – la cosiddetta riforma “Nordio” – ha infatti già assestato un duro colpo all’impianto anti-corruzione costruito nell’ultimo decennio a partire dalla legge 190 del 2012. È facile prevedere che l’applicazione del provvedimento finisca per mettere a dura prova la capacità delle procure, della polizia giudiziaria e dei tribunali di scoprire e perseguire anche i casi di corruzione.
Abuso d'ufficio, il reato-spia
La misura più significativa – e discussa – è stata l'abrogazione del reato di abuso d'ufficio, con conseguenti effetti retroattivi di “purificazione” del casellario giudiziario delle migliaia di condannati definitivi. Sappiamo dall’opinione esperta di magistrati e studiosi che l'esistenza del reato di abuso d'ufficio – non a caso presente nei codici di pressoché tutti i paesi europei, e inserito nella direttiva europea anticorruzione in corso di approvazione – è di cruciale importanza strategica nella lotta al malaffare politico-amministrativo. Si tratta infatti di un “reato sentinella" o “reato spia”: come dimostra la storia di molte inchieste passate, le anomalie riscontrabili nelle procedure pubbliche, derivanti da “abusi”, ossia da un cattivo uso della discrezionalità in condizioni di conflitto di interesse, ha consentito ai pubblici ministeri di indagare ed eventualmente portare alla luce – traducendola in evidenza probatoria –casi più gravi di corruzione. Ora non più.
La sua abrogazione rappresenta peraltro una misura in sintonia con una vocazione velatamente “autoritaria” ovvero sbrigativamente decisionista della maggioranza di destra al governo, che grazie a quel provvedimento ha decretato la liceità di una vasta gamma di abusi di pubblici funzionari nei confronti dei cittadini. Non sono più perseguibili, per fare alcuni esempi, i casi in cui un detenuto venga arbitrariamente e intenzionalmente escluso da ora d'aria, visite di parenti, visite mediche; un professore universitario favorisca concorsualmente allievi mediocri, impedendo l’accesso alla carriera accademica dei più meritevoli; un primario ospedaliero de-mansioni un aiuto medico perché non si rifiuta di indirizzare i pazienti verso la clinica privata dove il primo lavora; un poliziotto infierisca intenzionalmente contro soggetti deboli; un magistrato assegni incarichi peritali esclusivamente a parenti e amici. L’abrogazione dell’abuso d’ufficio finisce per proteggere solo ed esclusivamente il funzionario o il politico che abusino intenzionalmente e consapevolmente dei propri poteri arrecando a terzi danni ingiusti. E ad avvantaggiarsi dei loro abusi, naturalmente, potranno essere anche soggetti della cosiddetta “area grigia”, contiguo tanto a loro, che alle organizzazioni mafiose.
La riformulazione del reato di "traffico di influenze illecite", ossia la prospera e brulicante attività di faccendieri, mediatori, intermediari, ha suscitato minore attenzione nel dibattito pubblico, per quanto più nocivi rischiano di esserne gli effetti. La contro-riforma congegnata dal guardasigilli Nordio ha infatti ridotto drasticamente il campo di applicazione di quella fattispecie ai casi in cui il "trafficante di influenze" abbia legami esistenti, concreti e deliberatamente utilizzati con il pubblico ufficiale; gli fornisca esclusivamente denaro o altre ricompense economiche; induca quest'ultimo a commettere un atto contrario ai doveri d’ufficio costituendo un reato da cui possa derivare un indebito vantaggio. Considerata anche la contestuale abrogazione dell’abuso d'ufficio, sono state così legalizzate tanto le attività dei faccendieri in cui la contropartita non è monetaria, che quelle finalizzate a indurre un pubblico ufficiale a commettere quegli "abusi d’ufficio" (prendere scelte arbitrarie in conflitto di interessi, commettere favoritismi indebiti, ecc.) oggi non più reato.
La stretta sulle intercettazioni
A completare un quadro già a tinte fosche, la modifica della normativa sulle intercettazioni (pubblicazione, riservatezza di terzi non coinvolti nel procedimento) ha ridotto la possibilità di utilizzo e divulgazione da parte dei pubblici ministeri, in attesa di una stretta ancora più severa già annunciata dal ministro – che ha addirittura anticipato il suo intento di impedirne del tutto l’impiego nelle indagini sui reati contro la pubblica amministrazione. Così come annunciata è la riforma – o meglio, ancora, “controriforma” – della legge Severino, così da consentire agli amministratori politici condannati in primo grado per gravi reati contro la pubblica amministrazione di restare in carica.
Questo indebolimento dei presidi anticorruzione già realizzato in parte, e in parte ancora in corso d’opera, sta avendo e avrà una ricaduta negativa, diretta e immediata, anche sulla lotta alla criminalità organizzata di tipo mafioso. Tutte le evidenze empiriche disponibili confermano quello che la ricerca scientifica afferma da tempo, ossia che le mafie tendono da tempo a minimizzare il ricorso a strategie che generano allarme sociale, reazioni istituzionali e inasprimenti repressivi. In breve, la violenza o l’intimidazione vengono convertite – nei contesti ove questo convenga, nelle regioni di tradizionale insediamento così come nelle nuove aree di infiltrazione o colonizzazione mafiosa – in un “capitale reputazionale” dal quale attingere in caso falliscano altre modalità di interlocuzione con le proprie controparti. Qualora questi interlocutori si collochino in ambienti politico-istituzionali, imprenditoriali e professionali, la strada maestra utilizzata delle mafie per realizzare i propri obiettivi di profitto e di potere consiste nell’adottare strategie di tipo corruttivo e collusivo, ampliando quella rete di legami cooperativi, adattabili ai vari contesti, con i “colletti bianchi” che a loro volta grazie alla simbiosi con gli attori criminali conseguono una serie di vantaggi politici o economici. Disinnescando la capacità della magistratura di intercettare e perseguire queste “relazioni pericolose” di matrice corruttiva, si finisce per potenziare la capacità delle mafie di perseguire con successo i propri obiettivi di potere e di profitto mantenendo nell’ombra i propri scambi occulti con gli affidabili interlocutori politici e burocratici.
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