Gli interessi cinesi in Africa generano sviluppo e superpotenze
Siamo ripiegati sulle vicende politiche interne, sulla percezione degli immigrati ingigantita strumentalmente, sulle crescite economiche dello zero virgola, quando non decrescite, sul declino dell’Europa sempre più divisa e frammentata, lontanissima dall’ ”agire comune”. E non ci stiamo neppure rendendo conto dell’importanza che avrà sugli equilibri mondiali dei prossimi anni una delle più colossali trasformazioni economiche e politiche della nostra epoca: la Cina si sta impossessando dell’Africa. Era rimasta solo la Francia a combattere scaramucce nelle sue ex colonie, come da storica consuetudine. La Cina, in modo più innovativo e senza sparare un colpo, si mette in tasca l’intero continente. Una nuova colonizzazione, molto diversa da quella storica dell’Europa dell’Ottocento e del Novecento ma che sostanzialmente rende ancora una volta il Continente Nero terra di conquista.
Tra il 2000 e il 2008 gli scambi commerciali tra Cina ed Africa avevano fatto registrare un vero e proprio boom. Manco a dirsi, con un crescente squilibrio, tutto a favore di Pechino. Nel 2008 gli scambi hanno superato i 100 miliardi di dollari con una struttura dell’interscambio che non consentiva ai paesi africani di ridurre la propria dipendenza cronica dalle esportazioni di materie prime che pesavano per circa il 92 per cento del totale. Gli aiuti cinesi ai paesi africani fino al 2009 ammontavano a circa 40 miliardi di dollari. Tre le modalità principali: donazioni, prestiti a interesse zero e prestiti di natura concessionale. Il 42 per cento degli investimenti cinesi in Africa era destinato ai servizi, il 30 per cento all’estrazione dei risorse naturali, il 22 per cento al settore manifatturiero, il 16 per cento alle costruzioni, il 5,4 per cento ai servizi commerciali, il 3,2 per cento a ricerca e sviluppo (dati del periodico online “Orizzonte-Cina”, settembre 2012). Insomma, un attacco su tutti i fronti.
Le mani della Cina sul Continente Nero
E nel decennio che va a chiudersi come sono andate le cose? Vediamo di analizzare strategie, penetrazione, vicende, trend. Scriveva Gianni Balduzzi su sito “Termometro Politico” il 20 luglio 2016 in un articolo dal titolo “I cinesi in Africa, la mappa della penetrazione”: “La fame di materie prime, la grandissima adattabilità, l’approccio dirigista del governo che può mandare in capo al mondo migliaia di lavoratori senza molte opposizioni, tutti questi ed altri fattori contribuiscono all’enorme aumento del ruolo cinese in Africa, tanto che lo scorso dicembre sono stati promessi 60 miliardi di dollari di prestiti e aiuti al continente nero. Gli investimenti diretti hanno raggiunto invece i 32 miliardi nel 2015. Un ruolo di primo piano ormai a fianco di quello di USA ed Europa. Ma dove la Cina sta soprattutto investendo? Il paese in cui il ruolo della Cina si fa sentire di più sembra essere lo Zambia, non a caso paese minerario e in cui i cinesi cercano ferro e rame ma portano anche aiuto e assistenza. Non solo. C’è l’impegno nell’energia, con la costruzione di dighe idroelettriche, cosa che la Cina fa in Zambia, infatti, ma anche in Guinea e Sierra Leone. In Ghana e Guinea vi è il petrolio, ed è lì che si indirizzano gli appetiti di Pechino, ma in questi due paesi anche nella manifattura e nella costruzione di infrastrutture. Di fatto era dai tempi della colonizzazione che non si costruivano altri pezzi di ferrovia in Africa, e sono i cinesi che lo stanno facendo soprattutto in Africa orientale. In Sudan e in Ciad sono impegnati nella costruzione di aeroporti, in Mozambico di porti. In tempi di globalizzazione la strada per diventare una potenza mondiale passa proprio per l’Africa, il continente ancora economicamente più vergine, e la Cina pare proprio averlo capito”.
Una interessante analisi sull’argomento intitolata “La strategia della Repubblica Popolare di Cina e la sua penetrazione in Africa” è stata firmata il 21 marzo di quest’anno sul sito “MR Movimento Roosevelt” da Alessandro Loreto e Ruben Giavitto. “(…) Per dare un’idea della lungimiranza e della grande visione dei dirigenti politici cinesi – scrivono i due ricercatori – iniziamo subito dicendo che il progetto espansionistico nel continente nero è iniziato ed è stato pianificato circa venti anni fa, con i primi rapporti di natura economico-finanziaria. Nel 2015 il presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping ha annunciato un importante stanziamento in aiuti per sessanta miliardi di dollari da destinare all’Africa. In questo periodo ancora si parlava poco della Belt and Road Initiative, la Nuova Via della Seta o “One Belt One Road” (OBOR): il piano di ammodernamento, paragonabile per fini politici ad un piano Marshall del XXI secolo, col quale la Cina sta consolidando la sua influenza mondiale. Solo nel 2017, contratti cinesi in Africa sono valsi 76,5 miliardi di dollari. Un flusso di denaro imparagonabile a quelli messi in campo da istituti di credito interni come l’ ”African Development Bank” o la Banca Europea per gli Investimenti o da istituzioni come la Comunità Europea. Dopo la cospicua tranche erogata nel 2015, con effetti negli anni a seguire, ora a settembre 2018 lo stesso Xi Jinping, al terzo Forum “On China-Africa Cooperation” che si è svolto nella grande sala del popolo di Pechino il 4 settembre, davanti a cinquanta capi di Stato africani, ha annunciato una replica identica allo stanziamento di tre anni prima con altri 60 miliardi di dollari che andranno suddivisi in: prestiti, linee di credito, fondi speciali, sgravi fiscali e progetti infrastrutturali. I 60 miliardi di questa seconda ondata saranno così suddivisi secondo i piani cinesi: 20 miliardi in linee di credito, 15 in prestiti ed aiuti ad interesse zero, 10 in fondi di sviluppo, 10 project financing e 5 per facilitare le importazioni in Africa. Ritornando alla One Belt One Road (OBOR), il fonte africano è costituito da un sistema complesso e stratificato di accordi, memorandum e negoziazioni tra Cina e Africa: crediti e garanzia di esportazione, co-venture, anticipi su progetti e cartolarizzazioni. Tutto questo ha una enorme valenza economico-politica, ma con una chiara e visibile particolare attenzione per quello che riguarda la domanda interna cinese”.
E’ importante capire “dove” realizzano e “cosa” realizzano i cinesi. Riprendiamo dunque le modalità e la “conta” di dettaglio, paese per paese, che nel prosieguo di questo nostro approfondimento sarà ancora più schematica e capillare. “Gli investimenti infrastrutturali che la Cina sta facendo in Africa riguardano: nuove linee ferroviarie, ammodernamento di porti come a Gibuti, come a Tripoli in Libia (che sta affrontando le tensioni e l’instabilità politica del dopo regime di Gheddafi), Port Said in Egitto e Lagos in Nigeria. In sostanza – proseguono Loreto e Giavitto – stiamo parlando dello sviluppo logistico di una parte strategica e vitale del continente. Per essere più chiari, partendo dai prestiti e aiuti iniziali, i benefici economici scaturiti dal moltiplicatore finanziario che si è sviluppato e incrementato esponenzialmente negli anni nei paesi africani, non sono uguali sta Stato e Stato. Per esempio nel frattempo il Ghana ha ricavato da questo sistema circa 60 miliardi, lo Zimbabwe circa 33 miliardi e l’Angola 45. Tra l’altro la società petrolifera di stato angolana (“Sonangol”) è quasi del tutto controllata dalla China’s Development Bank. La Cina, operando con prestiti facilitati e linee di credito a tasso zero, guarda ad un controllo profondo dei paesi che aiuta, generando enormi affari per le sue aziende, in particolare per quelle di costruzione che hanno trasformato buona parte dell’Africa in un cantiere per rotaie, strade, dighe, stadi, edifici commerciali e così via. In definitiva si può affermare che il sistema sopra esposto porta il gigante cinese all’acquisizione del debito verso cui eroga finanziamenti. Tutto questo quadro economico-finanziario dà l’idea della portata politico-strategica di questo progetto a lungo termine di penetrazione sempre più capillare in un continente come quello africano ricchissimo di risorse energetiche e materie prime. Assommato agli altri contesti globali che vedono la Cina protagonista emergente in tutta la sua forza, ne fanno una potenza in grado di esercitare una reale e duratura egemonia mondiale nei prossimi decenni”.
Tutti gli asset cinesi paese per paese
Poco più di un mese prima, il 7 febbraio di quest’anno, anche il quotidiano “Il Foglio” aveva dedicato all’argomento una pregevole inchiesta di Giulia Pompili dal titolo “La campagna d’Africa”. “(…) Sempre più si parla della conquista cinese dell’Africa – scrive la Pompili – e della capacità della Cina di sostituirsi ai tradizionali alleati (e sostenitori, in termini economici) degli stati africani. Il problema però è nella natura degli investimenti cinesi, e nella cosiddetta “trappola del debito”: le opere sono finanziate con prestiti cinesi, che poi non possono essere ripagati costringendo a cedere quelle infrastrutture. Il caso di scuola è quello di un paese asiatico, lo Sri Lanka, e del porto di Hambantota: il governo di Colombo non è riuscito a ripagare il debito contratto con Pechino e nel dicembre del 2017 ha dovuto cedere il controllo del porto. La Cina avrebbe avuto un ruolo anche nella grave crisi politica che c’è stata in Sri Lanka lo scorso novembre”.
Il segreto sta tutto nelle modalità disinvolte e rapide della …vocazione costruttiva della superpotenza asiatica. “Mentre i paesi occidentali, o comunque democratici, investono nello sviluppo e nella cooperazione – spiega la firma del “Foglio” – ed esistono naturalmente lungaggini, burocrazie, controlli, la Cina si presenta con soluzioni immediate. Costruisce strade, ponti, palazzi, tutti ben visibili che servono ai governanti locali ad avere consenso. Poco importa se poi, dove passano i soldi, passa anche l’influenza politica. L’ultimo Forum sulla cooperazione Cina – Africa che si è svolto a Pechino lo scorso settembre 2018 è stato una specie di rito di consacrazione della strategia del presidente Xi Jinping nel continente africano. Quasi tutti i capi di stato africani sono volati nella capitale cinese per omaggiare l’attivismo di Pechino: 60 miliardi di dollari promessi in aiuti, investimenti e prestiti per i prossimi tre anni.
Il 26 maggio del 2018 il Burkina Faso ha chiuso le relazioni diplomatiche con Taiwan – l’isola che si dichiara indipendente, e ha una sua struttura governativa ed è il centro della politica americana in Asia, ma che la Cina rivendica come suo territorio secondo la “One China Policy”. Dopo la decisione del Burkina Faso, tra i paesi africani a riconoscere Taiwan è rimasto soltanto un minuscolo regno dell’Africa del sud, lo Swaziland, ufficialmente Regno di eSwatini. L’isolamento diplomatico di Taiwan orchestrato dalla Cina è la dimostrazione che Pechino ha argomenti convincenti quando si tratta di politica internazionale”. Lo Swaziland è una specie di (piccola) mosca bianca: l’unico stato africano che non ha relazioni diplomatiche con Pechino.
“Della conquista cinese dell’Africa – prosegue la redattrice de “Il Foglio” - si parla molto, e da molto tempo. (…) In mezzo al dibattito sulle reali intenzioni della Cina nel continente (è imperialista o no?), sulle pratiche commerciali (corrotte o no?), il punto chiave della discussione (…) è stato ignorato: la vita reale di quei cinesi che si sono stabiliti e lavorano in Africa. (…) Nel 2014 il volume di affari tra Cina e Africa raggiungeva i 215, 91 miliardi di dollari secondo l’Agenzia di stampa cinese Xinhua. Il 2018 è stato il nono anno consecutivo nel quale la Cina si è posizionata al primo posto come partner commerciale del continente africano, e sfiora i cento miliardi di dollari di volume complessivo. I progetti riguardano 30 mila chilometri di autostrade, 85 milioni di tonnellate all’anno di attività portuali, oltre 9 milioni di tonnellate al giorno di capacità di pulizia dell’acqua e circa 20 mila megawatt di generazione d’energia oltre alla creazione di circa 900 mila posti di lavoro”.
Pensate un po’ se con numeri così colossali e con questi risultati realmente di rilievo continentale la Cina non si metta in tasca l’intera Africa. Ma vediamo nel dettaglio cosa succede in diciotto paesi africani, partendo dal nord del continente e scendendo verso sud, pur con la precisazione di Giulia Pompili che “questa di seguito non vuole essere una mappa precisa, ma un affresco del lavoro capillare che sin dai primi anni del Duemila sta facendo la Cina in Africa”.
“Marocco. Entro il 2020 si inaugureranno i primi voli diretti tra la Cina e il Marocco. Questo perché il turismo cinese è cresciuto esponenzialmente, da 15 mila a 180 mila persone, dopo che il governo di Rabat e quello di Pechino hanno deciso di rendere più facili i visti turistici. Già nel 2017 Italia Oggi scriveva: “Da poco il Marocco figura sulla carta della nuova Via della Seta, il grande progetto di espansione cinese voluto dal presidente Xi Jinping. Un memorandum è stato ufficialmente siglato il 17 novembre tra i due paesi”, e poi ne sono seguiti molti altri. Le mani cinesi puntano soprattutto al porto Tangeri Med, ma finora la Cina si è aggiudicata i lavori del porto di Kenitra e la linea di Alta velocità tra Marrakech e Agadir.
Algeria. E’ il primo paese del nord Africa per relazioni economiche con la Cina, il terzo di tutta l’Africa. Le relazioni tra Algeri e Pechino sono storiche, sin dagli anni Novanta, rallentate solo dal terrorismo islamico. “Nel 2001, la quota della Cina nel commercio estero dell’Algeria era appena registrata. Nel 2016 la Cina è diventata il primo fornitore dell’Algeria, che da tempo deteneva il primato per ragioni storiche e politiche”, ha scritto Gianni del Panta su Reset Doc, “studiosi e giornalisti si sono concentrati su tre aspetti della veloce intensificazione della cooperazione sino-algerina: gli investimenti esteri diretti della Cina (Ide), le infrastrutture costruite da compagnie cinesi sul suolo algerino, l’arrivo di migranti cinesi nel paese”. A novembre 2018 la Cina ha donato 28,8 milioni di dollari all’Algeria come parte del contributo economico e tecnico.
Tunisia. A gennaio la Cina ha donato 40 milioni di dollari alla Tunisia per sostenere lo sviluppo del paese. Dopo molte strette di mano, il ministro degli Esteri tunisino ha sottolineato l’amicizia “esemplare” tra Pechino e Tunisi, e che l’adesione alla Belt & Road “aprirà nuove opportunità economiche”. La Cina costruirà un ospedale universitario a Sfax, una struttura culturale e sportiva a Ben Arous e l’Accademia di formazione diplomatica di Tunisi.
Libia. “Sette anni dopo aver rimosso l’uomo forte della Libia, l’occidente ha abbandonato i suoi sforzi sul terreno per ricostruire questo paese africano, lasciandolo distrutto dalla guerra civile, dal terrorismo e dall’instabilità politica. Quando arriva l’opportunità di una economia nazionale che si sviluppa e l’inizio della ricostruzione, è tempo di coglierla. E’ in questo contesto che la Libia ha firmato un memorandum d’intesa con la Cina con la quale aderirà all’iniziativa Belt and Road”. Sono le parole spese dal Global Times per descrivere l’impegno cinese in Libia a metà luglio del 2018. Già ai tempi di Gheddafi Pechino aveva vari interessi nel paese, e si era schierata con la Russia contro l’intervento della Nato. Poi però, nel tentativo di proteggere nel corso del 2011 i suoi asset, aveva dato pure il suo sostegno al National Transitional Council. Nel 2018 le esportazioni di petrolio libico in Cina sono raddoppiate rispetto all’anno precedente, per un valore di 3,5 miliardi di dollari.
Egitto. Un paio di mesi fa è naufragato il progetto tra l’Egitto e la Cina per la costruzione di una nuova capitale amministrativa a est del Cairo. Per due anni se ne era parlato, il progetto aveva un costo di venti miliardi di dollari, ma alla fine – secondo la versione delle autorità egiziane – la China Fortune Land Development aveva concesso troppo poco all’Egitto: solo il 33 per cento dei ricavi del progetto, e non il 40 come richiesto dal Cairo. Sono più di centomila i cinesi che vivono in Egitto, e i contratti finora firmati per la partecipazione del paese nel progetto Belt & Road arrivano a 18 miliardi di dollari. Sarebbero 10 miliardi di dollari gli investimenti diretti esteri nell’anno fiscale 2018–19, nell’anno precedente erano stati “solo” 7,9 miliardi. Sin dal 2017 la Cina è il maggior investitore del canale di Suez, e da anni ormai miliardi di investimenti finiscono nel China-Egypt Suez Economic and Trade Cooperation Zone, zona speciale considerata un “modello” di cooperazione tra i due paesi.
Sudan. Si è celebrato nel mese di febbraio del 2019 il 60° anniversario delle relazioni diplomatiche con la Cina, e il Sudan è stato in effetti uno dei primi paesi africani ad aprire a Pechino. Già nel 2011 su Limes si leggeva: “La Repubblica Popolare Cinese è il principale partner commerciale del Sudan e quest’ultimo ha rappresentato per la Cina una vera e propria porta d’entrata al continente africano. Il voto referendario che ha sancito l’indipendenza del Sud Sudan non ha cambiato la situazione e il dragone asiatico si sta impegnando diplomaticamente affinchè la separazione che avverrà in luglio non metta in dubbio la stabilità dei propri approvvigionamenti petroliferi”. La Cina sta facendo pressioni alle Nazioni Unite perché alleggeriscano le sanzioni economiche contro il paese.
Sudan del sud. Paese simbolo delle capacità di cooperazione e ricostruzione del Giappone, perché qui si è svolta la prima missione militare all’estero delle Forze di autodifesa di Tokyo dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Solo che oggi, a sentir parlare chi vive a Juba, la capitale del Sud Sudan, di giapponesi non se ne vedono, mentre la presenza cinese è ovunque.
Kenya. “Affacciato sull’Oceano Indiano, il porto di Mombasa in Kenya è uno dei più grandi e frequentati dell’Africa orientale”, scriveva pochi giorni fa sul Quartz Abdi Latif Dahir. “Qui sono state ormeggiate quasi 1.800 navi nel 2017, con un carico di oltre 30 milioni di tonnellate – molte delle quali destinate alle nazioni vicine senza sbocco sul mare, tra cui Uganda, Ruanda, Burundi e Repubblica Democratica del Congo. Sin dalla sua apertura a metà del 1890, il porto si è sviluppato per essere un hub regionale in crescita e un elemento chiave nello sviluppo infrastrutturale del Kenya. A dicembre si è scoperto che il prezioso porto è stato utilizzato come garanzia per il prestito di 3,2 miliardi di dollari utilizzati per costruire la linea ferroviaria di 470 chilometri tra la città balneare e la capitale Nairobi. In un rapporto venuto fuori dall’ufficio del revisore generale, il Kenya avrebbe rischiato di perdere il porto se il prestito fosse rimasto insoluto, e l’Exim Bank of China ne avrebbe assunto il controllo per recuperare i ricavi”. Dal 2020 il Kenya insegnerà il mandarino, ossia la lingua cinese, nelle scuole primarie per migliorare la competitività del lavoro e facilitare il commercio e i collegamenti con la Cina.
Tanzania. Sono partiti i collegamenti aerei diretti da poco, e il governo ha chiesto ai cittadini di imparare lingua e cultura cinesi per incentivare il turismo. Qui, mentre l’Europa blocca finanziamenti di cooperazione per questioni legate ai diritti umani, la Cina investe moltissimo. Il presidente Jhon Magafuli è stato chiaro: “La Cina non pone condizioni nei suoi prestiti”. Il porto di Bagamoyo e il villaggio vicino sono nelle mani dei cinesi.
Uganda. A dicembre del 2018 anche qui il ministro dell’Istruzione ha detto di voler imporre lezioni di mandarino obbligatorio per le scuole superiori destinate all’internazionalizzazione. Pochi giorni fa il governo cinese ha completato il progetto che consentirà a più di 500 villaggi dell’Uganda di accedere alla televisione digitale. Il progetto si chiama Access to Satellite TV e riguarda 10 mila villaggi africani. Per il governo ugandese l’infrastruttura è fondamentale perché “consente ai cittadini l’accesso alle informazioni”, veicolato però dalla Cina. Il progetto è infatti tutto nelle mani della cinese StarTimes sotto la supervisione dell’ambasciata cinese di Kampala.
Gibuti. E’ la sede della prima base militare permanente all’estero della Cina. Sin dall’estate del 2017 qui si alternano soldati cinesi e personale civile. Il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha spiegato che la base servirà anche per “assicurare la protezione dei crescenti interessi cinesi all’estero”. Diplomat, un sito specializzato di cose asiatiche, ha scritto che Gibuti sperava da tempo in un maggiore coinvolgimento della Cina nella regione, visto che il governo cinese aveva già investito nel paese circa 15 miliardi di dollari per favorire l’espansione del principale porto e delle infrastrutture collegate.
Etiopia. “Addis Abeba: la città che ha costruito la Cina”, titolava qualche mese fa la Cnn. La cooperazione è su tutti i settori, entro quest’anno l’Etiopia lancerà il suo primo satellite con l’aiuto cinese. La linea di credito fornita dalla Cina per la ferrovia che collega Etiopia e Gibuti è di 4 miliardi di dollari, da rimborsare in trent’anni. Dal 2000 i soldi prestati dalla Cina in Etiopia sono 12,1 miliardi di dollari.
Somalia. “La Cina ha sempre sostenuto la Somalia per preservare la sua sovranità nazionale, la sicurezza e l’integrità territoriale”, ha detto il presidente Xi Jinping incontrando l’omologo somalo Mohamed Abdullahi Farmajo a settembre 2018. Il governo cinese ha costruito oltre 80 progetti infrastrutturali come ospedali, stadi e strade. Partecipa al pattugliamento anti-pirati. In cambio, la Somalia ha dato l’autorizzazione alle navi cinesi di pescare nelle sue acque territoriali.
Repubblica democratica del Congo. E’ uno dei paesi su cui la Cina ha più influenza. Dopo le controverse a dir poco elezioni del dicembre del 2018, dopo la sentenza della Corte costituzionale, qualche giorno fa, Pechino si è congratulata con Felix Tshisekedi per la vittoria. La Cina oggi controlla quasi tutte le miniere di rame del RD Congo.
Costa d’Avorio. Nel 2000 il debito della Costa d’Avorio nei confronti della Cina era pari a zero. Tra il 2010 e il 2015 è diventato di 2,5 miliardi di dollari. La questione non è passata inosservata in Francia, che è il più grande partner commerciale di Yamoussoukro. Ma il rapporto molto stretto per via del passato coloniale è minacciato dalla presenza cinese, che ha avuto contatti per stadi di calcio, porti, impianti di acqua potabile, e da un paio di anni la pay tv cinese StarTimes ha rotto il monopolio televisivo di Canal+.
Gambia. Le relazioni con la Cina si sono ristabilite nel 2016, e qualche settimana fa il presidente Adama Barrow ha detto che i legami precedenti con Taiwan sono stati “un grosso errore” e ha ringraziato la Cina per tutto l’aiuto che ha dato al Gambia in seguito. Il Gambia ha già firmato per vari progetti per la Belt & Road.
Ghana. “Ci sono già 6.500 ghanesi che studiano in Cina, e questo fa del Ghana, con una popolazione di 28 milioni, il primo esportatore africano di studenti del paese. La Cina è passata dall’essere un territorio sconosciuto a principale partner commerciale del Ghana, con il commercio bilaterale che è passato da meno di 100 milioni di dollari nel 2000 a 6,7 miliardi nel 2017” ha scritto recentemente David Pilling sul Financial Times. “Per descrivere la vicinanza tra i due paesi, il Quotidiano del Popolo di Pechino sottolinea la costruzione della centrale idroelettrica di Bui da parte della Sinohidro-Corporation e l’impianto termico Sunon Asogli da 200 megawatt, gestito dalla Shenzen Energy Group”.
Angola. Parliamo di 23 miliardi di dollari di investimenti cinesi nel paese. Vuol dire 23 miliardi di debito. Senza considerare gli aiuti: un paio di settimane fa la Cina ha donato più di 14 milioni di dollari per il settore agricolo, e in cambio l’Angola ha eliminato la doppia tassazione per i cittadini cinesi. Già nel 2014 sul Sole 24 ore si leggeva: “Quando il premier cinese Li Keqiang è atterrato a Luanda, la capitale dell’Angola, ha sentito aria di casa. Tutto o quasi nel paese africano uscito dal 2002 da una guerra civile durata 27 anni è made in China. Che si tratti del nuovo aeroporto internazionale di Luanda, della ferrovia che attraversa il paese da est a ovest o della nuova città di Kilamba, gigantesco agglomerato alle porte della capitale pensato per ospitare 500 mila persone, la progettazione e costruzione è sempre stata garantita dai giganti cinesi dell’edilizia e dell’ingegneria”. “La strategia della penetrazione economica della Cina in Angola fa leva su di una precisa modalità di intervento che ha lo scopo di trasformare il Paese, finanziariamente povero ma ricco di risorse, in uno dei principali partner per il gigante cinese” ha scritto Giulia Lillo del Cesi (Centro studi internazionali)”.
Con il ricorso alla mappa che correda l’articolo di Balduzzi integriamo il mosaico degli investimenti cinesi nel continente già nella prima metà del decennio in corso in altri otto stati che finora non abbiamo elencato, al solito spostandoci da nord a sud. In Mauritania la Cina ha realizzato investimenti nel settore manifatturiero. In Niger nel settore petrolifero e del gas naturale. In Eritrea nel settore minerario (oro). Nella Repubblica del Congo (Brazzaville) la collaborazione ha riguardato le costruzioni civili. In Namibia le strategiche miniere di uranio. In Sudafrica le miniere di oro, altri settori minerari, la manifattura, altro. Nel Madagascar petrolio e gas naturale. Nell’isola di Mauritius il settore idrico.
Una vicenda emblematica: la pay tv StarTimes e la colonizzazione digitale
In questo contesto di infiltrazione e affari appare emblematica la galoppante influenza cinese nel continente attraverso la pay tv StarTimes. Ecco come è avvenuta nella narrazione di Giuseppe Gagliano sul sito StartMag, il magazine on line dedicato all’innovazione e alla crescita, in un articolo dell’1 settembre scorso dal titolo inequivocabile: “Come la Cina s’intrufola in Africa anche nelle tv”: “(…) La proiezione di potenza economica e politica della Cina in Africa passa anche attraverso il controllo della digitalizzazione in funzione in primo luogo antieuropea e in secondo luogo attraverso la marginalizzazione di quella sudafricana. Un colossale mercato di cui la StarTimes cinese intende appropriarsi per combattere contro i rivali Canal+ francese e MultiChoice sudafricano. Vediamo di ricostruire in breve l’ascesa della Star Times. In origine, nel 2006, le antenne analogiche prosperavano sui tetti africani. Le Nazioni Unite avevano appena annunciato la graduale attuazione del digitale. I paesi africani avevano quindi tempo fino al 2015 per prendere accordi. Pang Xinxing, un imprenditore cinese di 49 anni all’epoca, comprende gli enormi vantaggi economici. Questo ex leader della televisione pubblica cinese cerca di imporre invano per quasi vent’anni le sue apparecchiature di telecomunicazione in un mercato cinese già saturo. La digitalizzazione del continente africano potrebbe costituire un vantaggio economico fondamentale. In questo mercato il magnate dei media ha un argomento solido a suo sostegno: il prezzo del suo pacchetto digitale. Un abbonamento da 4 dollari, quando gli operatori già presenti chiedono fino a 70 dollari.
Il Ruanda è il primo ad accettare l’offerta di StarTimes nel 2007. Questo pacchetto comprende 30 canali, inclusi i canali locali, Al Jazeera e 4 canali pubblici cinesi. Successo immediato ed effetto domino in Africa. Nigeria, Tanzania, Sudafrica, Repubblica Democratica del Congo e presto trenta paesi si uniscono alla rete nell’arco di dieci anni.
Non si fanno attendere le reazioni. In Senegal e in Ghana, ad esempio, la riluttanza politica e le critiche indicano presto la pericolosità del dinamismo del gruppo. (…) Ma la presa del gruppo cinese si intensifica. In Zambia StarTimes costituisce una joint venture con il gruppo televisivo pubblico Znbc. L’accordo consente al gruppo di Pan Xinxing di essere un azionista del 60 per cento nella televisione pubblica dello Zambia per 25 anni. Per la prima volta, StarTimes ha acquisito potere decisionale su un canale pubblico straniero. Situazione simile in Tanzania. Per inciso, i due paesi si indebitano con Exim, una banca statale cinese. In particolare lo Zambia per 271 milioni di dollari. L’agenda di Star Times integra la strategia per assumere il controllo dello spazio di trasmissione nei paesi strategici africani”.
Un cinese alla guida della FAO. Con gran supporto di stati africani
Concludiamo questa analisi con una vicenda solo apparentemente slegata dal tema trattato. Ma in realtà indicativa e quanto mai eloquente di come la Cina si sia “comprata” l’Africa assoggettandola anche nelle scelte politiche: la recente elezione a direttore generale della FAO – l’organizzazione delle Nazioni Unite con sede a Roma che si occupa dell’alimentazione e dell’agricoltura – del cinese Qu Dongyu, ex viceministro delle Politiche agricole di Pechino. Scrive Martina Di Pirro il 25 giugno scorso in un articolo dal titolo “Dongyu alla FAO? E’ la Cina che si sta prendendo l’Africa (nell’indifferenza dell’Occidente)” su Linkiesta.it: “(…) Si è trattata di una vittoria senza esclusione di colpi, a conferma del ruolo di primo piano che la Cina detiene nel panorama geopolitico mondiale. Prevalso sulla candidata francese Catherine Geslain-Lanéelle, votata, tra gli altri, anche dall’Italia, con 108 voti favorevoli già nel primo turno, il nuovo leader dell’istituzione multilaterale durerà per quattro anni, dal 1° agosto 2019 al 31 luglio 2013, prendendo il testimone dal brasiliano José Graziano da Silva. “Saremo neutrali e imparziali” ha dichiarato Dongyu subito dopo essersi dichiarato “grato alla madrepatria”. Una madrepatria che ha sbaragliato tutti gli avversari con una netta maggioranza. Cinque candidati iniziali – tra cui Médi Moungui (Camerun), Davit Kirvalidze (Georgia) e Ramesh Chand (India) – ma solo tre sul finire: oltre a Dongyu, la francese candidata dell’Unione Europea Catherine Geslain Lanéelle (71 voti) e il georgiano sponsorizzato da Washington Davit Kirvalidze (12 voti). “Le modalità di selezione, però, sono state molto controverse – spiega Alberto Alemanno, professore ordinario di Diritto dell’Unione Europea alla Scuola di studi superiori commerciali di Parigi e fondatore di The Good Lobby – Si parla di episodi di natura corruttiva nei confronti dei paesi africani e sudamericani”.
Non a caso, infatti, fonti dell’Onu spiegano che più di Qu ha vinto “il sistema Cina, un intero Paese spesosi in modo capillare per ciascuno dei 108 voti”. A marzo scorso, Reuters dava notizia del controverso arresto per corruzione dell’ex presidente dell’Interpol Meng Hongwei, poi espulso da partito comunista per violazione della disciplina di partito. Stesso mese in cui viene registrato il ritiro del candidato camerunense Medi Moungui in seguito alla cancellazione di oltre 70 milioni di dollari di debiti che Yaoundé avrebbe dovuto pagare a Pechino, a detta di Le Monde. Dongyu era tra i favoriti anche perché vantava il probabile sostegno dei paesi del cosiddetto G77, tra questi paesi latinoamericani come il Brasile, paese che la Cina, secondo fonti diplomatiche citate da Le Monde, avrebbe minacciato con il bando delle esportazioni agricole. Considerando che oggi la Cina è il secondo partner commerciale dei Paesi dell’area dopo gli Stati Uniti e il primo di alcuni di essi, tra cui il Brasile appunto, la più grande economia della regione e patria dell’ormai ex dirigente FAO, il Perù e il Cile, mentre è il secondo partner commerciale per Argentina, Colombia, Uruguay e Venezuela, certi meccanismi non stupiscono.
Da un lato, quindi, l’America Latina. Importante, in ottica cinese, per le sue grandi risorse naturali e agricole (il petrolio in Venezuela, la soia in Argentina e Brasile), di investimento infrastrutturale (i porti: il colosso cinese Cosco, lo stesso presente al Pireo in Grecia, è presente al porto di Chancay in Perù, mentre la China Merchants possiede il 90 per cento del terminal del porto brasiliano di Paranagua) e per legami commerciali e diplomatici. In breve: Cina 1 – Stati Uniti 0. Almeno per questa partita, che ha scatenato – e con tutta probabilità scatenerà ancora di più – una forte guerra ai dazi.
Dall’altro, c’è il più grande investimento che la Cina sta portando avanti: l’Africa. “Tanto l’Africa quanto il Sudamerica sono due aree strategiche della Nuova via della seta – afferma Alemanno – Ma sull’Africa la Cina ha investito molto. E proprio il territorio africano offrirà il primo terreno d’azione per capire come la nuova guida a trazione cinese affronterà i nuovi equilibri mondiali. E’ chiaro che si tratta di una proiezione del potere culturale ed economico che la Cina sta avendo nel contesto geopolitico. E desta non poche preoccupazioni”.
Ma da quali delle sue stracolme casseforti provengono le ingentissime risorse che la Cina investe in Africa? Spiega ancora la Di Pizzo: “Secondo uno studio condotto dalla China-Africa Research Initiative, la Cina ha prestato un totale di 143 miliardi di dollari a 56 nazioni africane, messi a disposizione principalmente dall’Export-Import Bank of China e dalla China Development Bank. Per capire come funziona basta pensare che, per settore, circa un terzo dei prestiti era destinato a finanziare progetti di trasporto, un quarto all’energia e il 15 per cento destinato all’estrazione di risorse, compresa l’estrazione di idrocarburi. Solo l’1,6 per cento dei prestiti cinesi è stato dedicato ai settori dell’istruzione, della sanità, dell’ambiente, alimentare e umanitario. Le priorità degli investimenti appaiono chiare. Lo scopo pure.
“E’ chiaro che le relazioni tra Africa e Cina sono tali e talmente strette da poter fare valere ogni interesse economico – afferma Mario Raffaelli, presidente di Amref – Si pensi alla Belt and Road Initiative, la Via della Seta, che vede coinvolto il porto di Gibuti”.
La posizione del porto, proprio sullo Stretto di Aden e sul mar Rosso, lo rende strategico sia del punto di vista commerciale sia da quello militare. Gibuti, ex colonia francese, ha affittato a diversi paesi stranieri terreni sui quali sono state costruite basi militari. Ed è anche una porta aperta sui mercati dell’Africa orientale e centrale. Per questo motivo, la Cina ha puntato gli occhi sul Paese e lo ha inserito tra le nazioni strategiche nelle sue politiche commerciali.
“La vera forza della Cina in Africa è stata la capacità di diversificare gli interventi in ogni paese africano coinvolto. – continua Raffaelli – Basti pensare che, mettendo insieme Etiopia, Kenya, Tanzania e Gibuti, la Cina in quattro anni ha investito una cifra pari a quasi 24 miliardi di dollari. Alcuni stati africani stanno accumulando ingenti debiti nei confronti di Pechino. L’Europa, in queste candidature ma anche in generale, avrebbe potuto fare molto di più per far valere altri standard, come quelli umanitari. L’elezione di Dongyu racconta una politica di penetrazione cinese che va vista con preoccupazione, soprattutto per l’atteggiamento neocolonialista e di mancato rispetto dei diritti umani, tema al quale la Cina è completamente disinteressata e che l’Africa, invece, soffre molto. Inoltre, la Cina ha avuto un calo di produzione agricola che fa capire le necessità di mettere proprio il vice Ministro dell’agricoltura a capo dell’agenzia delle Nazioni Unite con uno dei mandati più ampi su queste tematiche. E’ un asset essenziale, che conferma il ruolo crescente della Cina nel panorama globale” “.
Crescere e indebitarsi
Siamo al dunque. L’Africa – grazie ai colossali investimenti cinesi – sta crescendo economicamente. Ed è un dato innegabilmente positivo. Per tutti. Anche per i non africani. Ma inevitabilmente, conseguentemente, non disponendo di surplus finanziario o attivo proprio per pagarsi questi investimenti, si sta indebitando. Ed allora – conclude l’articolo di Linkiesta.it – “secondo uno studio del Fondo Monetario Internazionale risalente ad aprile 2018, a partire dalla fine del 2017, circa il 40 per cento dei paesi dell’Africa subsahariana a basso reddito sono ora in difficoltà di indebitamento o valutati come ad alto rischio di difficoltà di indebitamento, tra cui l’Etiopia, la Repubblica del Congo e lo Zambia. E secondo un rapporto pubblicato a marzo dal Centro per lo sviluppo globale, proprio Gibuti è destinato ad assumere debiti pubblici pari a circa l’88 per cento del Pil totale del paese, di 1,72 miliardi di dollari, con la Cina che ne detiene la maggior parte”.
La Cina è tanto forte finanziariamente e come nuova superpotenza globale da potersi permettere decine di stati debitori africani alla sua corte ma più aumenteranno i debiti più aumenterà la dipendenza/sudditanza di questi paesi africani rispetto a Pechino. Non è il colonialismo storico europeo. E’ altro. Certo meno padronale, meno autoritario, meno sfrontato ma con un dominus il cui primato strategico, il cui quoziente di condizionamento, il cui controllo politico, economico, finanziario, culturale metterà radici sempre più profonde.
La Cina “imperiale”
C’era qualcosa di “imperiale” nelle grandiose celebrazioni dell’1 ottobre scorso per il settantesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese che la impenetrabile maschera dell’ ”imperatore” Xi Jinping già da sola evidenziava mentre su di una vettura scoperta passava in rassegna l’imponente schieramento pronto a sfilare. Numeri impressionanti: 280.000 civili rappresentanti di diversi settori della società ma soprattutto 15.000 militari, 580 sistema d’arma fra cui spiccavano i nuovi, temibili missili balistici intercontinentali Df 42 ed i Df17, droni stealth (cioè che sfuggono ai radar, n.d.r.) e, nel cielo, ben 160 aerei di diverso tipo a sorvolare l’immensa piazza Tienamen, teatro della parata. Una giornata destinata ad essere ricordata per la sua innegabile esibizione muscolare anche se nella riottosa, anelante libertà Hong Kong i dimostranti, come succede da mesi, hanno fatto di tutto per guastarla. Imperiale anche i l tono del discorso ufficiale di Xi per la ricorrenza con due frasi che non sono passate inosservate ed hanno colpito tutti: “Non esiste alcuna forza in grado di scuotere la nostra grande nazione. Nessuno può fermare il popolo e la nazione cinese dal continuare nei nostri progressi”. Parole ad uso interno, parole all’indirizzo del mondo intero, a cominciare dagli Stati Uniti anche se il capo incontrastato del gigante asiatico non ha nominato direttamente gli Stati Uniti con cui è in corso un confronto a distanza sul terreno commerciale, economico, finanziario, strategico. Xi Jinping ha parlato espressamente di “completa riunificazione” alludendo a Hong Kong ma anche a Macao e Taiwan. Pechino deve “promuovere gli sforzi in direzione di una completa riunificazione”, e questa è una perifrasi che sta a significare – come scrive l’1 ottobre Federico Giuliani su InsideOver.it (“Il discorso di Xi Jinping per la festa della Repubblica Popolare Cinese”) - che in un modo o in un altro, la Cina prima o poi riprenderà sotto il suo controllo anche la provincia ribelle di Taiwan.
La duratura egemonia mondiale cinese nei prossimi decenni e qualche scricchiolio
Ecco, di questa Cina imperiale l’Africa ha tutta l’aria di diventare quasi una (neo)colonia, quasi un enorme territorio d’oltremare. Anche se non manca – Hong Kong in cima alla lista – qualche scricchiolio. Come il rallentamento economico degli ultimi anni rispetto a percentuali di crescita galoppanti, ma alla lunga naturalmente insostenibili, di alcuni lustri fa. Come scrive la professoressa Alessia Amighini, associata di Politica economica nell’Università del Piemonte orientale, ricercatrice senior dell’ISPI per l’Asia, sinologa, in un articoli dell’1 ottobre scorso su “lavoce.info” dal titolo “70 anni di Cina Popolare tra comunismo e capitalismo”, “negli ultimi 40 anni la Cina ha attivamente cercato il suo ruolo nell’economia mondiale: prima fabbrica del mondo di prodotti di massa a basso costo è poi passata ad essere il più grande esportatore ed ora è anche ambizioso innovatore nei settori più avanzati come l’intelligenza artificiale. (…) A 70 anni, la Cina è interdipendente con quasi tutti gli altri paesi, sia ricchi che poveri, attraverso il commercio, gli investimenti e la finanza. E’ oggi il più grande mercato di destinazione delle esportazioni per oltre 35 nazioni e la più grande fonte di importazione per oltre 65. L’importo totale cumulato degli investimenti esteri in Cina è di circa 200 miliardi di dollari e i suoi investimenti esteri valgono circa 100 miliardi di dollari. La sua moneta è sempre più utilizzata come valuta nel commercio internazionale ed è stata inclusa nel paniere dei diritti speciali di prelievo del Fondo Monetario Internazionale (un gruppo di valute “ufficiali”). L’inevitabile influenza della Cina sull’economia mondiale oggi deriva dal suo essere strettamente intrecciata con il resto del mondo, mantenendosi relativamente chiusa all’influenza straniera. La principale abilità dei leader cinesi è stata – ed è ancora – quella di diventare una potenza economica globale navigando tra le regole stabilite dalle istituzioni multilaterali e mantenendo il controllo dell’economia domestica attraverso la solida presa sulle strutture dell’economia, cioè terra, lavoro e capitale – la più grande peculiarità dell’economia cinese”.
“Ma paradossalmente – e da qui cominciano i rischi che la professoressa Amighini addita – il meccanismo di mercato che la Cina è stata così capace di perseguire e sfruttare con il resto del mondo non le impedisce di affermare di essere ancora un’economia in via di sviluppo (e quindi di resistere alle pressioni per accelerare le riforme politiche interne), con l’argomentazione che il suo reddito procapite è tuttora al di sotto della 60a posizione. Questo è il motivo per cui la domanda più interessante oggi non è se la Cina continuerà a crescere rapidamente e supererà gli Stati Uniti (cosa che potrebbe accadere senza conseguenze reali e in effetti è già avvenuta in termini di Pil a parità di potere d’acquisto) ma piuttosto se la Cina sarà in grado di sopravvivere alla sua stessa crescita.
La Cina a 70 anni è diventata (quasi) vecchia senza diventare (davvero) ricca. Le precedenti fonti di crescita (accumulo di capitale attraverso credito statale a buon mercato, aumento della forza lavoro, aumento della produttività) sono state totalmente sfruttate ed ora si sono trasformate in potenziali strozzature per un ulteriore sviluppo: basta citare il debito nazionale elevato, il calo della popolazione in età lavorativa, la necessità di innovazioni radicali. Oggi la via facile per la crescita è esaurita e le esigenze di una economia matura includono un sistema di welfare, un sistema più selettivo di allocazione del credito, la capacità di produrre innovazione radicale.
Il presidente Xi – così la sinologa conclude la sua analisi – ha l’ambizione di dimostrare che il Partito comunista cinese è in grado di portare il paese ai massimi livello di benessere nel mondo, come e forse meglio dei sistemi a suffragio universale. Per questo chiede compromessi inaccettabili: internamente, li chiede ai cittadini cinesi sul tema della libertà personale, costringendoli alla quasi completa impossibilità di comunicare con l’estero, soprattutto in questo periodo, per non rischiare di turbare l’armonia delle celebrazioni. Al resto del mondo chiede compromessi inaccettabili in tema di regole di multilateralismo, come sconti e concessioni sulle condizioni alle quali la Cina è ammessa a partecipare alle istituzioni multilaterali”.
In Africa i compromessi - specie quando si tratta di chiudere gli occhi sui bistrattati diritti umani (del resto da che pulpito verrebbe la predica?) - sono ricorrenti e non si va troppo per il sottile. I cinesi finanziano, pagano, realizzano, guadagnano ritorno economico e potere globale. I risultati materiali sono sotto gli occhi di tutti. Per loro va bene così. Per le leadership dell’immenso Continente Nero va bene così.
La penetrazione cinese in Africa, pianificata in ogni particolare, è così capillare che tecnici ed operai cinesi costruiscono di tutto, dalle ferrovie agli impianti minerari, dalle strutture per le telecomunicazioni agli edifici scolastici. In Ghana già una decina di anni fa i colossi dell’imprenditoria cinese si sono presi la briga persino di impartire lezioni di lingua cinese ai numerosi dipendenti del luogo. Come abbiamo riportato, altri paesi africani hanno in questo decennio reso obbligatorio nel loro sistema scolastico lo studio del cinese. E’ tutto dire. I nostri figli e nipoti tra quindici o venti anni scriveranno “Africa” ma leggeranno “Continente, possedimento cinese”. I cinesi, dal canto loro, dovranno fare i conti in numerose realtà statuali dell’Africa con l’altra penetrazione della nostra epoca nel continente che avanza inarrestabile, parallela alla loro: quella islamica. Ma questa è un’altra storia.
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