L’attualità del sacrificio di Saetta e Livatino
25 settembre 1988-21 settembre 1990, sono le date in cui furono assassinati dalla mafia i giudici Antonino Saetta e Rosario Livatino, ambedue di Canicattì. Il primo, giudice giudicante di lunga esperienza (66 anni di cui 40 in magistratura), il secondo, giovane pm (38 anni) ma già sperimentato inquirente che aveva messo a nudo la nuova trama mafiosa della “stidda”, allora sconosciuta ai più, e di Cosa nostra dell’agrigentino. Ambedue magistrati rigorosi e silenziosi. Parlarono solo con le loro sentenze e furono sempre impenetrabili alle pressioni ambientali. Il primo fu ucciso perché, eccessivamente ligio alla legge, rifiutò suggerimenti e intimidazioni. Pagò, anche per l’infingardaggine di qualche suo collega, il suo lineare comportamento nel processo per la strage di via Pipitone Federico dove perì Rocco Chinnici, giudice istruttore di Palermo e inventore ante litteram del primo pool antimafia d’Italia. Subito dopo aver depositato la sentenza di condanna all’ergastolo degli assassini del capitano Basile fu ucciso, mandanti Riina e Madonia, assieme al diletto figlio Stefano sulla veloce Caltanissetta-Agrigento. Saetta fu ucciso anche per impedirgli di assumere la presidenza del primo maxiprocesso. Fu, quindi, il primo magistrato giudicante d’Italia ad essere assassinato dalla mafia non solo per vendetta ma anche per lanciare un avvertimento minaccioso a tutti i giudici.
Rosario Livatino, da giovanissimo in magistratura, oggi sottoposto a un processo di beatificazione per il suo intenso sentimento e impegno religioso, è passato alla storia per il suo lindore intellettuale e per il fatto che i suoi esecutori furono immediatamente individuati grazie a un cittadino che, trovatosi per caso ad assistere al delitto sulla strada Canicattì-Agrigento, si fece testimone di giustizia.
Ricordarli insieme nel corso di una settimana di legalità promossa dalle Associazioni Tecnopolis, degli Amici di Rosario Livatino, Libera, Centro studi Pio La Torre è un atto di memoria e di riflessione più ampia nel momento in cui la crisi del Paese richiama tutti al rispetto della Costituzione e dei suoi principi fondamentali tra i quali c’è quello dell’indipendenza della magistratura.
La fase storica durante la quale caddero Saetta e Livatino è quella dell’epilogo della seconda guerra di mafia, dell’avvio del maxiprocesso e che precede quella delle stragi del 1992/93. Sono gli anni durante i quali indagini e processi gettano luce sui rapporti mafia affari politica, sulle nuove formazioni criminali nella Sicilia interna e orientale (stidda, catanesi ecc.),sul nuovo ruolo assunto dalle cosche ennesi, nissene e agrigentine, trapanesi. Quelle indagini cancellarono anni di negazione istituzionale dell’esistenza di mafie attive in quei territori malgrado la loro crescita economica grazie anche ai legami con le mafie d’oltreoceano e con il sistema politico mafioso. Quel pool di coraggiosi magistrati, pur in assenza di pressione sociale e politica, con le sue indagini complesse ci ha consegnato le prove di quanto stretta fosse la relazione delle reti mafiose con la società, l’economia e alcuni politici di governo locale, regionale e nazionale.
Di fronte a tutto ciò, Governi e Parlamento hanno proceduto con attenzione altalenante. Sotto la pressione di un’opinione popolare scossa da episodi criminosi eclatanti hanno proceduto a varare leggi e iniziative, (vedi la legge Rognoni-La Torre, per i collaboratori di giustizia, per la gestione dei beni confiscati), per poi tarparne la pratica attuazione o lo svuotamento nella fase di disattenzione pubblica. Dopo la fase repressiva, quella preventiva non è stata ugualmente efficace, anzi si sono tentati passi indietro come con il cd Codice antimafia che se non avesse avuto una forte opposizione antimafia avrebbe cancellato dalla memoria legislativa la legge Rognoni-La Torre, ma che è riuscito a introdurre il principio che i beni confiscati possono essere venduti prima della verifica del loro riuso sociale.
La legge n°45 del 2001 sui testimoni di giustizia non ha avuto migliore destino applicativo pur essendo una buona legge. Tutti i testimoni di giustizia raccontano le difficoltà e le mortificazioni della loro dignità subite dopo la decisione della loro protezione. I programmi di protezione non hanno tutelato adeguatamente la dignità dei testimoni quasi confusi con i collaboratori, i cd pentiti, sempre provenienti dagli ambienti criminali, mentre i testimoni sono vittime o cittadini che hanno deciso di testimoniare e a causa di questa scelta civile subiscono sradicamenti sociali, scombussolamenti familiari e psicologici gravi. Effetti che mettono a repentaglio tutte le migliori intenzioni premiali della legge. I meccanismi di tutela dei testimoni e dei loro familiari non possono fallire. Molti testimoni hanno denunciato come, ospitati in alberghi o residence, tutti venivano a conoscenza del loro status che doveva rimanere segreto e per giunta venivano scambiati per collaboratori di giustizia. Sono state segnalare le difficoltà per il cambio d’identità, di lavoro, di assistenza medica, scolastiche per i figli minori o quelle per ottenere la capitalizzazione delle misure di assistenza o il mantenimento del livello di vita precedente. Il governo e il Parlamento dovranno rapidamente assicurare che la Commissione centrale e il Servizio di protezione abbiano mezzi e intelligenze capaci di applicare lo spirito della legge con duttilità e rapidità perché lo Stato che si è impegnato a tutelare i testimoni non fallisca. Il fallimento dello Stato sarebbe il trionfo dell’omertà e delle mafie. Ecco perché continuiamo a sostenere che la questione del contrasto alle mafie deve essere considerata prioritaria nell’agenda politica. Ha fatto bene il Governo Letta a prevedere nel recente decreto sulla Pubblica amministrazione l’assunzione al suo interno dei testimoni di giustizia, ove ricorrano i requisiti. Ma non basta! Per colpire l’intreccio mafia- politica, non si devono rinviare ancora le leggi contro la corruzione, il voto di scambio, l’autoriciclaggio, i reati finanziari e si deve smettere di considerare la questione mafiosa un problema di semplice criminalità relativo al meridione, infiltratosi tutt’al più nel resto del paese, da reprimere senza mai toccare i livelli finanziari, politici e istituzionali.
Ci preoccupa che questi temi siano dibattuti in preziosissime iniziative come quelle per ricordare le vittime Saetta e Livatino, ma non compaiano nel dibattito interno dei partiti, di tutti i partiti. Senza una proposta della loro risoluzione è difficile immaginare un processo di rinnovamento positivo della società e della politica.
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