Femminicidi, qualche ragionevole proposta

Società | 6 luglio 2025
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La strage infinita dei femminicidi raggiunge vertici di efferatezza – come l’uccisione a maggio ad Afragola di Martina Carbonaro, fidanzatina-bambina quattordicenne cresciuta troppo in fretta – ma quanto a contromisure si arranca. Le pene decise da Corti d’assise, Corti d’assise d’appello, Cassazione sono spesso talmente irrisorie e discutibilmente motivate da uccidere per la seconda volta vittime e famiglie. E soprattutto è ancora il più indispensabile degli argini quel cambiamento culturale che a partire dalla scuola dell’infanzia se non dall’asilo nido dovrebbe trapiantare nel cervello di noi maschietti il neurone antiviolenza del rispetto. Quanti decenni trascorreranno, ammesso che l’indispensabile trapianto culturale riesca e dia i suoi risultati? Nell’attesa diventa fondamentale investire nel contrasto di tutti i giorni: prevenzione, indagini, sicurezza, giustizia. Non meno fondamentale tenere alta la mobilitazione su questa emergenza endemica – parrebbe un ossimoro: una emergenza dovrebbe essere temporanea e non endemica – che ci portiamo dietro dalla notte dei tempi. In forme diverse (una volta i rapimenti per le fuitine, il delitto d’onore, tante altre angherie d’ogni sorta) ma sostanza costante. Non stancandoci di iniziative, proposte, manifestazioni.

Come combattere silenzi e solitudini

In tema di proposte, eccone quattro. Differenti nei contenuti ma tutte rivolte a combattere silenzi, solitudini, oblio, diversità di trattamento a sfavore del sesso rimasto debole anche a considerare i tanti passi in avanti nella legislazione. E dunque tutte e quattro con l’obiettivo di difendere la donna.
La prima: pietre d’inciampo. Una vita alla quale ha messo fine un compagno, un marito, un ex marito, un fidanzato deve continuare ad esistere quanto meno nel ricordo della comunità locale dove la vittima viveva – città o paesino che sia – e non solo nel dolore non rimarginabile di genitori orfani di una figlia e di figli orfani della madre. Perché non collocare una “pietra d’inciampo” (o una “targa d’inciampo”) in prossimità della abitazione della vittima di femminicidio per ricordarne negli anni esistenza e sacrificio?
La seconda proposta: non dimentichiamo Saman Abbas. Ha sconvolto tutti l’uccisione a Novellara (Reggio Emilia) nel 2021 della diciottenne immigrata pakistana da parte di padre, madre, zio, cugini. Per il suo rifiuto del matrimonio combinato dalla famiglia con un lontano parente in Pakistan. Per il suo vivere all’occidentale. Per esserle stato impedito dal padre di proseguire gli studi alle superiori dopo le medie, come avrebbe voluto. Per essersi fidanzata con un giovane connazionale anche lui immigrato in Italia. Nel delitto Abbas gli assassini che si macchiano le mani di sangue sono coloro che hanno messo al mondo Saman, i familiari che dovevano proteggerla. Non è il compagno. La prospettiva si ribalta. Il femminicidio di Saman Abbas raggiunge vertici di sopraffazione e di orrore impensabili. La sventurata Saman va ricordata doppiamente: per essere vittima di femminicidio e per essere stata uccisa dai suoi familiari nel nome della più arcaica concezione della donna. Non siamo alle prese con gli odiosi canoni “standard” del femminicidio. Qui si è andati addirittura oltre. A Saman andrebbero intitolati edifici scolastici, aule magne, parchi pubblici, concorsi tematici nelle scuole, premi letterari. È diventata suo malgrado un simbolo della resistenza incessante che dobbiamo tutti combattere contro i femminicidi.
Terza proposta: i “cold case”. Tante donne “spariscono”. “Se ne vanno da casa”. “Piantano i compagni”. “Vengono rapite”. “Non si sa più nulla di loro”. Oppure “si suicidano”. E il caso si archivia come suicidio, finisce così. Siamo sicuri che nella vastissima casistica appena elencata non siano presenti tanti femminicidi abilmente camuffati diventati “altro” in indagini a volte sommarie? Chissà quanti casi rimasti con più di un dubbio investigativo se ripresi e condotti con metodologie e accertamenti scientifici nuovi potrebbero rivelare scenari diversi e cambi di paradigma. Chissà quante “sparizioni” e chissà quanti “suicidi” nascondono firme ben diverse. Quelle dei soliti noti – fidanzati, mariti, ex mariti, compagni, ex compagni – che a distanza di tanti anni sono convinti di averla fatta franca. Bisogna fissare i criteri per la riapertura dei casi. Criteri che valgano da Aosta a Lampedusa e con metodo consolidato e metodologie tecnico-investigative nuove riprendano a indagare su decine di vicende archiviate senza aver dissolto del tutto dubbi e interrogativi.
Quarta proposta: autonomia economica e carriera lavorativa. La proposta riguarda tutte le donne che lavorano. Potrebbe incrociare i femminicidi, anche se marginalmente, nella componente essenziale della cosiddetta “autonomia economica” o “autonomia finanziaria” che aiuta chi fugge dalle grinfie del marito-padrone e tenta una seconda chance. Magari ospitata da qualche associazione in una casa protetta. Ma è solo un punto di contatto che si verifica in sporadiche occasioni. In ogni caso la quarta proposta è opportuna per tutte le donne che lavorano. E, fornendo un aiuto a tutte le donne che procreano, interviene in uno dei più gravi handicap della società italiana: il rifiuto di fare figli. Per ricorrenti “difficoltà economiche della coppia”. Perché pensiamo che “non ha senso mettere al mondo figli se poi ci sarà la guerra”. Per, nientemeno, i “mutamenti climatici”. Perché allevare figli specie per la donna che lavora è diventato il mestiere più difficile e faticoso del mondo. Perché allevare figli fa a pugni con la carriera lavorativa. Perché partorire è doloroso e pericoloso. Per – chiamiamo le cose con il loro nome – non ammesso egoismo. Risultato: il cosiddetto inverno demografico. Ebbene, un aiuto potrebbe venire da iniziative concrete. Come quella di conteggiare i cinque mesi di astensione obbligatoria per maternità non come cinque ma come dieci o addirittura quindici mesi di servizio in termini di retribuzione, avanzamento di carriera, trattamento previdenziale. In altre parole: la collega entrata in servizio assieme a me lo stesso giorno che diventa madre e andrà incontro alle tante fatiche e agli handicap che abbiamo elencato non resta indietro rispetto a me collega-maschio-dominante che farò carriera, guadagnerò di più, me ne andrò in pensione con una retribuzione più alta della sua. Ma, al contrario, con gli abbuoni che proponiamo mi sorpasserà e chissà che non diventi lei mio dirigente e che non se ne vada lei in pensione con più titoli retributivi e previdenziali dei miei. Intanto i cinque mesi di congedo di maternità obbligatoria nei quali percepisce una indennità giornaliera pari all’80 per cento della sua ultima retribuzione media giornaliera devono essere retribuiti al 100 per cento. E poi l’abbuono, il bonus di sostegno, li moltiplica per due o per tre (lo stabilirà il dibattito politico e lo sancirà il legislatore) ossia non cinque quanti i mesi effettivamente trascorsi a casa ma dieci oppure quindici mesi di stipendio, servizio e carriera, contributi previdenziali.

Come superare l’inverno demografico

Ripetiamo: la proposta è valida “erga omnes”, per tutte. Alimenterebbe polemiche – ne siamo consapevoli – e in tanti direbbero che scasserebbe i conti di Inps e Stato, che non basterebbero le risorse per finanziarla, che introdurrebbe differenze tra le donne-madri e le donne che per scelta o per percorso di vita non sono e non saranno madri. Può darsi. Intanto, sul piano finanziario, sarebbe sufficiente rinunciare a un cacciabombardiere di quinta generazione, a un carro armato, a un missile per mettere già da parte un gruzzolo cospicuo da investire nella nuova misura di aiuto alla donna e alla maternità. Se poi qualche sostegno del genere intercetta anche donne sottratte a violenze e ad un più che possibile femminicidio ben venga. Perché è cosa buona e giusta tutto quello che va nella direzione della autonomia finanziaria della donna rispetto allo strapotere anche economico di mariti e compagni padroni. Menti malate che si tengono ben stretto il controllo delle spese della coppia e danno i soldi contati, come se fosse una serva, alla moglie o compagna che va a fare la spesa.
La conclusione dell’intero ragionamento di queste pagine non può che essere una: le tante associazioni che operano nel campo del contrasto alla violenza di genere e i centri antiviolenza approfondiscano le quattro proposte. Se le intestino. Discutendole, perorandole, intervenendo su chi normativamente le potrebbe rendere cogenti, applicabili e applicate.
 di Pino Scorciapino

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