Rocco Chinnici, il padre
del pool antimafia

Società | 26 luglio 2025
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Via Pipitone Federico, angolo di Beirut. Così qualcuno definì 42 anni fa la strage nella quale persero la vita il giudice Rocco Chinnici, i due carabinieri di scorta Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi. Si salvò solo l’autista e collaboratore del magistrato, Giovanni Paparcuri, che poi andò a lavorare al pool antimafia con Falcone e Borsellino e ne ha conservato la memoria in un piccolo museo. Quella strage, non solo perché è il periodo dell'anniversario, è anch'essa segnata dal sospetto, probabilmente molto più che un sospetto, del depistaggio.
Depistaggio, un reato introdotto nell'ordinamento italiano nel 2016, che trova però riscontro in tutte le stragi e gli omicidi eccellenti compiuti in Italia.
Durante la requisitoria al secondo processo di primo grado (imputati la cupola e Giovanni Brusca) fu l'allora pubblico ministero Annamaria Palma ad alzare l'indice. “Rocco Chinnici si imbatté, nell'ambito delle sue indagini, fra l'ala militare di Cosa nostra e i cugini Ignazio e Nino Salvo. Questi ultimi erano l'anello di congiunzione fra Cosa nostra e il mondo politico siciliano. Su questi fatti Paolo Borsellino aveva riferito, ma non successe nulla, per questo sostengo che c'è stato depistaggio”. Quelle parole furono come una frusta che schioccò in aria. Annamaria Palma parlò di depistaggio nell'ambito delle prime indagini sulla strage di via Pipitone Federico, fece cenno a omissioni e interventi esterni, e aggiunse: “Fra qualche decennio forse sapremo chi ha deviato le indagini su questa strage”.
Lo stesso pm sostenne che Borsellino prima e Giovanni Falcone poi avevano riferito a pochi giorni dalla strage, su chi e che cosa Roco Chinnici stava indagando. “Erano in cugini Salvo – sostenne il pm – e conferma di quanto sospettavano Borsellino e Falcone è giunta solo con questo processo, con una indagine che ha atteso sedici anni prima di vedere quali fossero le motivazioni che portarono Cosa nostra a decidere la strage”. Sei giorni dopo la strage di via Pipitone Federico, Paolo Borsellino consegnò all'allora procuratore di Caltanissetta Sebastiano Patanè la sua verità, che venne verbalizzata e lasciata a impolverarsi nell'archivio della Procura per ben sedici anni.
Su quella strage mise la sua mano anche ‘U verru di San Giuseppe Jato. "Sono responsabile della strage del dottor Chinnici e chiarisco in quali termini". Giovanni Brusca, oggi uomo libero, poco più di un mese dopo la decisione di "pentirsi", raccontò le fasi della strage ai magistrati Guido Lo Forte, procuratore aggiunto a Palermo, ad Alfonso Sabella, sostituto pm a Palermo, a Gabriele Ghelazzi, sostituto procuratore a Firenze, e ad Annamaria Palma e Nino Di Matteo sostituti procuratori a Caltanissetta. Una sorta di "minuto per minuto" con grandi dovizie di particolari. Era l'agosto del 1996, quando uno dei macellai di Cosa nostra raccontava con precisione quei momenti.
Erano le otto e cinque minuti di un caldo 29 luglio di quarantadue anni fa quando Rocco Chinnici scese dal terzo piano della sua abitazione per andare in ufficio. Alla finestra la moglie che lo guardò uscire. Sul portone il portiere che lo salutò e vicini all'auto con la quale erano venuti a prenderlo i carabinieri. Chinnici fece pochi passi, si avvicinò all'Alfetta quando l'autobomba che era stata piazzata nei pressi esplose. Sembrò che in quella zona si fosse concentrata una scossa di terremoto. L'autobomba venne piazzata proprio davanti al portone dell'abitazione di Rocco Chinnici, in maniera tale che l'Alfetta su cui doveva salire il magistrato fosse costretta a fermarsi in doppia fila.
Alcuni testimoni raccontarono che alcune auto, che si trovavano parcheggiate nella zona, volarono fino al secondo e anche al terzo piano dello stabile, prima di precipitare in basso. Numerosi furono anche i feriti, colpiti dai pezzi di auto e dai calcinacci del palazzo.
"Un anno prima dell'attentato – ha raccontato Brusca – ricevetti incarico da Salvatore Riina di mettermi a disposizione di Nino Madonia. In un primo tempo era stato deciso che l'attentato dovesse essere effettuato all'abitazione estiva del magistrato a Salemi. Nella zona si erano messi a disposizione di Riina i cugini Salvo. In effetti Nino Salvo fu poi contattato da me e questi mi indicò la villetta che a Salemi era abitata da Chinnici. Sia Ignazio che Nino Salvo erano a disposizione 'in tutto' di Riina, erano entrambi uomini d'onore della famiglia di Salemi. In precedenza erano stati vicini a Stefano Bontate, a Salvatore Inzerillo e a Gaetano Badalamenti. In un momento successivo erano poi divenute persone a disposizione di Riina e io tenevo i contatti con loro. Successivamente feci una serie di sopralluoghi alla villetta assieme a Baldassare Di Maggio, a Nino Madonia, a Pino Greco 'scarpa'. Questi sopralluoghi vennero effettuati in periodo estivo. Mi resi conto che il dottor Chinnici si trovava in quel periodo alla villetta e quindi in ferie, in quanto lo vidi proprio davanti alla villetta. Ricordo anche che notammo la presenza di una Alfasud color verde e sospettammo si trattasse di un'auto di tutela. Proprio per questo motivo e perché non eravamo del tutto pratici dei luoghi, fatti questi sopralluoghi, si decise di non eseguire lì l'azione la quale, secondo il programma, doveva effettuarsi con armi convenzionali e non con l'esplosivo. Chinnici doveva essere ucciso perché stava contrastando con le sue iniziative giudiziarie Cosa nostra e perché con qualche sua iniziativa stava dando fastidio ai Salvo. In questi termini si espresse con me Riina. Poi il progetto dell'attentato rimase sospeso per qualche mese. Fu quando Nino Madonia si presentò portando con sé un telecomando del tipo di quelli utilizzati per le automobiline o per aeromodelli. Il telecomando era costituito da una trasmittente e da un ricevitore, già opportunamente modificato. Nino Madonia, posizionandosi a circa 100-200 metri di distanza, in linea d'aria, dall'abitazione dove mio padre Bernardo trascorreva la sua latitanza, effettuò ripetute prove di funzionamento del telecomando, sempre con esito positivo”.
“Per il reperimento dell'esplosivo – prosegue il racconto di Bruzsca – me ne incaricai io. Ne raccolsi tra i 70 e i 90 chili, del tipo granuloso, di colore bianco, come quello usato nelle cave. Lo portai confezionato in due contenitori nel cofano di una Golf di proprietà di Balduccio Di Maggio, lo stesso Di Maggio mi batteva la strada con una Fiat Uno di colore bianco e ci incontrammo con Nino Madonia. Con quest'ultimo mi recai in uno scantinato vicino via Ammiraglio Rizzo. All'interno c'era una Fiat 126 verde. Nel cofano anteriore collocammo l'esplosivo dentro due scatole di metallo che aveva procurato Madonia. I contenitori avevano un foro e utilizzando un imbuto immettemmo l'esplosivo. Lo stesso foro servì per posizionare i detonatori. Furono fatte anche delle operazioni per posizionare il filo dell'antenna e per collegare la ricevente collocata sotto il sedile. Le operazioni furono lunghe e terminarono all'imbrunire. Terminato il lavoro all'interno dello scantinato con Antonino Madonia mi recai nell'appartamento di via D'Amelio nella sua disponibilità, dove successivamente fu ritrovato il libro mastro delle estorsioni e che è conosciuto come covo di via D'Amelio. Dopo aver mangiato una pizza andammo a dormire. Oltre alla sveglia telefonica sintonizzammo sveglie tradizionali. Dovevamo alzarci presto per evitare di ingolfarci nel traffico mattutino. Ci alzammo alle 6-6,30. Ci recammo a bordo di una Fiat Uno allo scantinato dove prelevammo la 126, alla guida della quale mi misi io. Ci dirigemmo quindi verso via Pipitone Federico con Nino Madonia che mi batteva la strada. Poco prima di arrivare in via Pipitone Federico fermai la 126 in una traversa poco distante per posizionare il detonatore all'interno di una delle scatole che contenevano l'esplosivo. Sempre seguendo Madonia arrivai davanti all'abitazione del dottor Chinnici dove, contemporaneamente al mio arrivo, Calogero Ganci spostò un'auto precedentemente lì parcheggiata. Nel posto lasciato libero da Ganci lasciai la 126. Feci in modo che tra la parte anteriore dell'auto e la macchina posteggiata davanti la stessa 126 restasse maggior spazio possibile per consentire che il dottor Chinnici, uscendo da casa e per salire sull'auto di servizio, transitasse proprio davanti alla 126. Prima di scendere dalla 126 rimossi una protezione in materiale isolante che avevo collocato in un punto interno alla ricevente dove doveva chiudersi il contatto. Feci poi fuoriuscire l'antenna dallo sportello, in basso; accostai lo sportello senza sbatterlo bensì premendo con le mani ed infine, sfregando il sedere sulla portiera, ebbi cura di cancellare le impronte da me lasciate. A questo punto mi diressi a piedi, sempre sulla stessa via Pipitone Federico, verso via Libertà e notai posteggiato, sul lato opposto rispetto a quello in cui avevo lasciato la 126 un camion. A bordo del camion, al posto di guida, c'era Giovan Battista Ferrante. Poco distante c'era la Fiat Uno di Madonia a bordo della quale salii. Dopo un po' arrivarono le auto che dovevano prelevare il dottor Chinnici. Fu a questo punto che Madonia salì sul cassone del camion, portando con sé un sacchetto di plastica che conteneva il telecomando. Madonia era vestito da muratore, con pantaloni corti e canottiera. In quel frangente transitarono Pino Greco 'scarpa' e Vincenzo Puccio con una Simca color azzurrino. Dopo l'esplosione io e Madonia facemmo ritorno in via D'Amelio, dove prelevai la mia auto. Successivamente commentai con mio padre e con Riina che era andato tutto bene". Finisce qui il racconto di Brusca o meglio un resoconto, fatto con la calma e la pacatezza utilizzata dagli impiegati modello quando si relazionano con i “superiori”.
I processi sulla strage sono stati numerosi. L'iter giudiziario iniziato nel 1983 si è concluso dopo quasi vent'anni, il 24 giugno 2002. Il primo processo terminò con la condanna dei fratelli Salvatore e Michele Greco (il senatore e il papa), che furono però assolti nel terzo processo di appello. Il processo Chinnici-bis portò all'identificazione di mandanti ed esecutori. Un processo che si arricchì delle dichiarazioni di nuovi collaboratori di giustizia: Calogero Ganci, Francesco Paolo Anzelmo, Giovan Battista Ferrante, Francesco Di Carlo e Giovanni Brusca. Nel 2000 la Corte d'assise di Caltanissetta condannò all'ergastolo Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Raffaele e Stefano Ganci, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, Giuseppe Calò, Antonio e Francesco Madonia, Salvatore e Giuseppe Montalto, Matteo Motisi, Giuseppe Farinella e Vincenzo Galatolo mentre i collaboratori Giovanni Brusca, Giovan Battista Ferrante, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci vennero condannati a diciotto anni di carcere ciascuno. Successivamente nel 2002 la Corte d'assise d'appello modificò le sentenze per alcuni imputati: vennero assolti Matteo Motisi e Giuseppe Farinella e i collaboratori Anzelmo e Brusca furono condannati a quindici anni anziché i diciotto pattuiti inizialmente. Nel novembre dell'anno seguente la Cassazione confermò la sentenza d'appello della Corte di assise d'appello di Caltanissetta.
Con Chinnici la mafia fece fuori un magistrato che per primo aveva posto l’esigenza di dare un coordinamento alle inchieste sulla mafia. Con lui era nata l’idea di un pool concepito come uno strumento essenziale per uno scambio di notizie tra i vari fronti investigativi. Prima di allora mancava una visione complessiva di Cosa nostra perché si indagava seguendo i singoli filoni d’indagine.
 di Giuseppe Martorana

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