La Camera di consiglio
e il dovere della paura
Società | 21 novembre 2025

Entrare in una camera di consiglio è come uscire dal mondo per giudicarne le nefandezze. È come andare in ufficio passando dai cornicioni. Con la borsa piena di una vita piccola piccola, ci si cimenta contro la banalità del male che non ci si può permettere di condannare moralmente ma che bisogna riconoscere giuridicamente applicando norme, sottili differenze, tecnicismi, sfumature del diritto. Non basta dire “ti condanno perché sei chiaramente cattivo”. No: ci vogliono le prove, devi spiegare com’è che sei cattivo oltre ogni ragionevole dubbio. Se no è arbitrio e non è giustizia.
Non voglio certamente proporre un Bignami di diritto e procedura penale ma solo dirvi del film “La Camera di consiglio” della regista Fiorella Infascelli che racconta i 35 giorni di Camera di consiglio che, il 16 dicembre del 1987, uscì con la sentenza contro Cosa Nostra dopo 21 mesi di udienze.
Ma sbaglierebbe chi dovesse andare a vederlo pensando di trovare un film che racconta la storia di questo mastodonte giudiziario che fu il processo contro 474 imputati che si svolse in un’aula attigua all’Ucciardone, costruita “ad hoc” con tanto di sistemi antiaerei di missili terra aria montati sul tetto. Nossignore. Questo è un film sull’angoscia, sullo choc per la presa d’atto dell’esistenza di un mondo ai più sconosciuto. Perfino al presidente della Corte d’assise Alfonso Giordano che veniva dalla giustizia civile, tutto un altro mangiare rispetto al penale.
È anche la storia di un singolare dovere, quello della paura. Prima di entrare nel terribile conclave che doveva scrivere la sentenza, i sei giudici popolari avevano vissuto quasi due anni di incubo: minacciati più volte, scortati ai massimi livelli di sicurezza, intere famiglie sottoposte a uno stress mai provato in precedenza. Ma la Camera di consiglio fu come un pugno nello stomaco durante un’indigestione: nessun contatto con l’esterno, il comprensibile terrore di gente qualsiasi alle prese con un mondo magari letto solo sui giornali o visto in tv. Gente lontana dalla “cultura” mafiosa, stupita da personaggi del calibro di Luciano Liggio o di Michele Greco, alle prese con problemi di interpretazione delle norme che coinvolgono un ampio ventaglio delle conoscenze, dal Diritto alla Filosofia, dall’Economia alla Politica. E poi anche: che differenza c’è tra una prova e un indizio? È un processo alla mafia o ai mafiosi? Il processo deve avere una “strategia etica” o si deve limitare a valutare le prove? Che differenza c’è tra associazione a delinquere e associazione mafiosa? Che vuol dire inversione dell’onere della prova? A queste domande da Ruota della Fortuna, furono chiamati a rispondere sei cittadini qualsiasi: Francesca Agnello, Maria Nunzia Catanese, Luigi Mancuso, Lidia Mangione, Renato Mazzeo e Francesca Vitale. Tutti in clausura insieme col presidente della corte Alfonso Giordano e al giudice a latere Pietro Grasso.
Il film, grazie anche alla consulenza dello stesso Pietro Grasso e del giornalista Francesco La Licata, racconta della fatica improba, dell’angoscia, delle debolezze. Con la memoria dei due anni nel mirino e con quella ancora più grande di quando si sarebbe rimasti sotto quel mirino a partire dal dopo sentenza (19 ergastoli e centinaia di anni di carcere). Tutte sfumature affidate a un cast all’altezza della situazione: Sergio Rubini, presidente; Massimo Popolizio, giudice a Latere; Rosario Lisma, Renato; Claudio Bigagli, Luigi; Betti Pedrazzi, Maria Nunzia; Anna Della Rosa, Franca; Stefania Blandeburgo, Francesca. L’altra sera al Lux di Palermo c’era Stefania Blandeburgo che ha riscosso meritati applausi anche a nome di tutti gli altri. Conosco bene Stefania, un’attrice capace di tutto. Ma nel ruolo di Francesca, insegnante palermitana scomparsa pochissimo tempo fa, mi è sembrata particolarmente a suo agio riuscendo a dare al suo personaggio un bonus di forza e pacatezza. Forse perché, da palermitana, sa molto bene quanto sia difficile contrastare il primo comandamento di Cosa nostra, cioè che avere un amico è meglio che avere un diritto. E ciò anche quando la società e la legge ti danno il potere di giudicare.
Ultimi articoli
Nelle scuole si prepara
la marcia contro
mafia, droga e violenza
Appalti e politica, luci su un sistema marcio
Cuffaro, fenomenologia
di un sistema di potere
Nuccio, su Comiso La Torre riuscì a coagulare esperienze diverse
Lo Monaco, cittadino onorario “contro la mafia e per il riscatto della Sicilia”
Altavilla, cittadinanza onoraria a Vito Lo Monaco
Progetto educativo, c’è
il vuoto dietro la violenza
che brucia tanti giovani
Giovani e violenza Progetto educativo antimafia
Azzolini, così Tele L'Ora accese le luci sui missili
Lo Monaco, dai missili tracce del delitto La Torre