I fronti sempre caldi di Gaza e Ucraina

Società | 18 ottobre 2025
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Se sappiamo guardare oltre gli eccessi celebrativi e l’ego ipertrofico di Donald Trump ci rendiamo conto che gli accordi firmati il 13 ottobre 2025 a Sharm El Sheikh, in Egitto, sono un cessate il fuoco – e non una pace, sia chiaro – più fragile di un bicchiere di cristallo.
In Medio Oriente dopo il “pogrom” con le stragi del 7 ottobre 2023 di 1200 israeliani, in stragrande maggioranza civili, e la cattura di circa 250 ostaggi ad opera dei tagliagole terroristi di Hamas scatta la spietata, criminale rappresaglia del governo di Benjamin Netanyahu. Oltrepassando ogni limite, ha spianato, assetato, affamato, sbriciolato Gaza. Poco meno di 68.000 palestinesi uccisi (c’è chi sostiene siano molti di più) – anche in questo caso in stragrande maggioranza civili – nel non riuscito tentativo di annientare i miliziani di Hamas e formazioni collegate. Civili considerati nulla di più di “danni collaterali”. Una carneficina disumana. Alla quale il 13 giugno 2025 si è aggiunto l’attacco di Israele all’Iran per impedire che Teheran prosegua nell’arricchimento dell’uranio per dotarsi di ordigni nucleari. Seguito dall’entrata in guerra a fianco di Israele degli Usa di Donald Trump che nella notte tra il 21 e il 22 giugno con un raid aereo infliggono danni ai tre più importanti siti nucleari sotterranei iraniani.
A fine agosto il via all’occupazione israeliana di Gaza City, con le operazioni di terra che iniziano il 16 settembre, mentre Israele si annette sempre più ampie porzioni della Cisgiordania con il ricorso a massicci insediamenti illegali di coloni. Il governo di ultradestra di Tel Aviv ormai sembra aver sposato in pieno la strategia di creare il “Grande Israele” confessionale nel Medio Oriente occupando territori su territori ed espellendone i residenti palestinesi con la pulizia etnica.
Persino i più embrionali tentativi di negoziato per una tregua, e ancor più per la pace, si spengono nel giro di giorni. Incomparabilmente più forte sul campo, il guerrafondaio che guida il governo di Israele (in questo emulo del suo collega che siede al Cremlino a Mosca) prende tempo, alza sempre la posta, inventa motivazioni che non stanno in piedi – un concentrato di incoerenze e falsità - pur di continuare a combattere, bombardare i civili, avanzare. Israele giunge addirittura a bersagliare il 9 settembre i vertici di Hamas a Doha nel Qatar, paese arabo non ostile che si è impegnato come mediatore nei negoziati per la tregua a Gaza e il rilascio degli ostaggi israeliani. Un atto sconsiderato. A Tel Aviv si è perso ogni ritegno oltre che il lume della ragione. Un raid che ha seriamente compromesso gli “Accordi di Abramo”.
Il 9 ottobre finalmente la svolta. Esercitando una fortissima pressione sul primo ministro israeliano perché ponga fine al criminale massacro di civili a Gaza e – tramite i mediatori Qatar, Egitto, Turchia – su Hamas, il presidente degli Usa impone l’accettazione del cosiddetto “Piano Trump”, poi firmato a Sharm El Sheikh il 13 ottobre. Il 3 ottobre da Hamas, ossia dagli altri criminali del fronte palestinese, era venuta una risposta possibilista. Dopo 736 giorni di guerra si è aperto uno spiraglio, tutto da verificare nell’applicazione. Sui venti punti del piano l’accordo riguarda più che altro i primi quattro. Sugli altri punti prosegue un negoziato tutto in salita. E tuttavia siamo in presenza di un mutamento decisivo: con il rilascio dei venti sequestrati israeliani del 7 ottobre 2023 superstiti, da due anni sepolti vivi nei tunnel del sottosuolo di Gaza, e la liberazione di 1.968 detenuti palestinesi incarcerati in regime duro nei penitenziari di Israele non finirà il conflitto ma almeno forse chiuderà il “Mattatoio Gaza”. E si fermerà l’esodo (quello sì biblico) dei gazawi da una parte all’altra della Striscia nel vano tentativo di sfuggire ai bombardamenti israeliani. Ma Hamas, entità politico-militare-mafiosa, deporrà le armi? Si lascerà disarmare? Nessuno ci crede. I miliziani di Hamas – emersi dalle centinaia di chilometri di gallerie del sottosuolo (la cosiddetta “Metropolitana di Gaza”) ancora non distrutti dall’esercito israeliano – non hanno perso tempo a riprendere a sparare. Con esecuzioni sommarie modello Isis hanno fatto fuori in tre giorni 33 collaborazionisti con Israele ed esponenti di fazioni palestinesi avversarie. Naturalmente senza prendersi neppure la briga di un processo. E non hanno ancora restituito tutti i corpi degli ostaggi presi il 7 ottobre 2023 e da allora deceduti, come previsto dall’accordo siglato, anche per la difficoltà di tirarli fuori da chissà quante tonnellate sovrastanti di infrastrutture distrutte dai bombardamenti.
Gaza non potrà mai essere liberata dalle sue macerie materiali ed esistenziali, sia nei luoghi che nella mente e nel fisico provati di bambini, adulti, anziani. Tra israeliani e palestinesi di Gaza e Cisgiordania l’odio reciproco è ormai incontenibile, irreversibile. Padrone dei rispettivi Dna. Altro che due popoli e due stati, formula che sa più di slogan che di effettiva convinzione da parte di tutti noi che pure auspichiamo con tutta l’anima che possa realizzarsi.
Dopo la “pax americana” in Iraq è nato l’Isis. Dopo la “pax americana” in Afghanistan sono tornati al governo i talebani, più oscurantisti e fanatici di prima. Dopo la “pax americana” a Gaza quale nuova conseguenza o reazione (politica, armata, terroristica, militare) si farà strada? Nutrita di vendetta, da tutto il sangue, dallo sterminio nei bombardamenti di intere sventurate famiglie considerate nulla più di bersagli?
L’Europa e la guerra “ibrida”
E in Europa? Niente di nuovo sul fronte europeo, per parafrasare il titolo di un famoso romanzo di Erich Maria Remarque che ha avuto negli anni ben tre riduzioni cinematografiche. O forse no. La Russia continua a bombardare l’Ucraina: case, condomini, scuole, ospedali, treni passeggeri, persino convogli umanitari dell’Onu. E infrastrutture energetiche nel voluto intento di condannare, come nei tre inverni precedenti, la popolazione al freddo micidiale di quelle parti. La popolazione civile come obiettivo. Oltre 3.100 droni, 92 missili e circa 1.360 bombe plananti: questo il recente bilancio di una settimana di attacchi russi in territorio ucraino. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti umani, dall’inizio del conflitto (24 febbraio 2022) al 31 luglio 2025 le vittime civili ucraine sarebbero state 13.883. I feriti 35.548. Insomma, ci avviciniamo ai 15.000 morti civili. Ma per l’Ucraina e per protestare contro questo massacro deliberato di civili che fa il paio con quello di Gaza non scendiamo in strada, non gridiamo la nostra rabbia, ricorriamo ad arzigogolati distinguo, non accusiamo Vladimir Putin (su cui come Netanyahu la Corte penale Internazionale ha avviato una istruttoria con l’accusa di crimini di guerra) di essere un macellaio. Come in effetti ha cominciato ad essere a partire dal 1999 in Cecenia. Piuttosto, per paura, quasi per ingraziarcelo o per affinità ideologiche, pare che nell’Occidente stiano aumentando i fan dello spietato zar senza quarti di nobiltà del Cremlino. Per dirla tutta: ProPal? Sì. ProUcra? Non se ne parli.
Dal 1945 mai come da qualche anno a questa parte in Europa si teme che possa scoppiare un conflitto Russia-Nato, anche con l’impiego di ordigni atomici. E da alcuni anni sono sempre più rare le parole di pace o quanto meno di distensione da parte dei leader politici del pianeta. Al contrario, diventano normali nelle relazioni tra paesi toni sempre più aspri e ultimativi. Come nelle epoche più buie della storia, sono saltate regole basilari della coesistenza tra i popoli e tra le nazioni. Ciò che conta sono solo la forza, il dominio, la supremazia tecnologico-militare. Si consolida nei leader politici una rassegnata quanto pervicace incapacità di non cadere sempre nella guerra. Ci siamo dimenticati di Hiroshima e Nagasaki. La tensione è alle stelle dopo l’incursione il 9 settembre di una ventina di droni russi sulla Polonia, un blitz-test che ha “bucato” le difese Nato. Provocazioni di questo genere sono ormai pane quotidiano. Si parla apertamente di “guerra ibrida” – per ora solo “ibrida” – in corso tra Russia e Nato in Europa settentrionale e orientale.
Marcia comune tra Usa e Russia
Trump il pacificatore ebbro dei (quanto mai presunti) trionfi mediorientali riprova ora a dedicarsi al conflitto russo-ucraino. “Prevedo di incontrare Putin nelle prossime due settimane” dichiara il 16 ottobre il presidente dopo due ore di telefonata con l’omologo russo. “Non possiamo esaurire le nostre scorte di missili Tomahawk” ha aggiunto riferendosi alla richiesta di missili a lunga gittata che il malmesso Zelensky avanza da mesi. La verità è che Trump è tanto in grado di imporsi su Netanyahu quanto impossibilitato ad imporsi su Putin. Perché nelle mani di Putin. Certo, non è facile districarsi tra il sostegno militare all’Ucraina e la gestione dei rapporti con la Russia in una fase di così intenso e pericoloso disordine internazionale. Per di più per un presidente che è stato alla Casa Bianca dal 2016 al 2020 e vi è tornato nel 2024 grazie (anche) alla Russia di Putin. Lo scrive Craig Unger ne Casa di Trump, casa di Putin (La storia segreta di Donald Trump e della mafia russa), edito in Italia nel 2018 da “La nave di Teseo”. Una storia avvincente che inizia negli anni settanta – quando Trump fa la sua comparsa nel settore immobiliare di New York, un mondo pieno di soldi e in espansione – e che culmina con la sua elezione a presidente degli Stati Uniti. Quel giorno segna il punto di arrivo del lungo progetto russo di indebolire la democrazia occidentale. Un progetto che è cominciato trent’anni prima, quando la mafia russa puntò le proprietà di Trump per ripulire il proprio denaro, e che ha portato gli oligarchi di Putin e i boss mafiosi a salvare il tycoon da una serie di clamorosi fallimenti dei suoi hotel e casinò ad Atlantic City. (…) La guerra fredda non è finita nel 1991, ma si è semplicemente evoluta: gli affari immobiliari di Trump sono diventati il veicolo perfetto per investire miliardi di dollari dall’Unione Sovietica al collasso. In Casa di Trump, casa di Putin, Craig Unger segue le tracce dell’alleanza tra le alte sfere della politica americana e i protagonisti del mondo sommerso della mafia russa. Documenta l’ascesa di Trump da magnate immobiliare alla più alta carica del paese. Descrive la rinascita russa dalle ceneri dell’Unione Sovietica così come il suo incessante desiderio di rivalsa contro l’occidente, per reclamare il suo ruolo di superpotenza globale. “Senza Trump, alla Russia sarebbe mancato un elemento chiave per tornare alla sua grandezza imperiale. Senza la Russia, Trump non sarebbe presidente”.
Tesi, quelle di Unger, che si possono discutere e contestare quanto si vuole. Ma un dato di fatto è incontrovertibile: nel suo primo e in questo suo secondo mandato Trump ha fatto di tutto per tenersi buono e compiacere Putin. Concetto plasticamente reso chiaro dal tappeto rosso e dall’applauso al russo che scendeva dalla scaletta dell’aereo nel loro primo incontro di questo secondo mandato lo scorso 15 agosto in Alaska. Seconda circostanza incontrovertibile: senza missili a lunga gittata gli ucraini continueranno ad essere massicciamente bombardati ed arretreranno sul fronte. Terzo elemento incontrovertibile: il prossimo incontro fra Trump e Putin non avverrà entro due settimane ma, come sempre succede in casi del genere, slitterà di parecchio e chi ci guadagna non saranno certo gli ucraini bensì l’esercito russo che avrà modo di “completare il lavoro” o quanto meno di avanzare sul territorio dell’aggredita Ucraina.
E dove si terrà il prossimo incontro tra i due presidenti? Ma naturalmente a Budapest, in Ungheria. Scelta accurata, significativa: paese dell’Unione Europea ed ex paese del blocco sovietico, governato da quel Viktor Orbàn, sodale e ammiratore sia di Trump che di Putin, allergico al sistema democratico, intascatore di pingui aiuti comunitari. L’UE non aveva bisogno di ulteriori schiaffi – ne prende tanti… – ma una scelta studiata come questa avrà fatto gongolare i tre campioni della democrazia, sia l’ospitante che i due ospitati nella capitale ungherese.
Intanto il 30 settembre negli Stati Uniti il segretario alla Guerra, Pete Hegseth (con Trump il “Dipartimento della Difesa” è tornato ad essere “Dipartimento della Guerra”, come si era chiamato fino al 1947) ha convocato tutti i generali americani (circa 800) di esercito, marina, aeronautica. E ha pronunciato un discorso farneticante: “Da questo momento in poi l’unica missione del Dipartimento della Guerra appena ripristinato è questa: combattere la guerra. Non perché vogliamo la guerra ma perché vogliamo la pace (…). Le uniche persone che meritano la pace sono quelle disposte a fare la guerra per difenderla. Ecco perché il pacifismo è così ingenuo e pericoloso”. Questi sono gli effetti che provoca l’ultradestra plutocratica MAGA al potere negli Usa. Se Putin e Trump fanno paura i loro allievi e possibili successori ne fanno ancora di più.
 di Pino Scorciapino

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