Un mondo che non c’è più, tra realismo e ironia

Con buona pace di Harold Bloom la letteratura che resta e quella che segna il tempo non arriva e non arriverà solo dalla vecchia Europa o dall’America. Le periferie del mondo hanno qualcosa d’importante da dire. Lo sa bene il prolifico Raphaël Confiant, nativo della Martinica, isola delle Piccole Antille, campione della cultura creola, che s’è poi deciso a scrivere anche in francese, riuscendo così a raggiungere un pubblico più vasto. Non sono molti i suoi titoli in italiano (li hanno pubblicati Zanzibar e Instar Libri), ma adesso è possibile trovare uno dei suoi volumi più intensi. Edito per la prima volta nel 1994 in Francia e lì ristampato e rilanciato nel 2015. Adesso disponibile anche in italiano. È la sorte toccata a “Il comandante dello zucchero” (300 pagine, 18 euro) di Raphaël Confiant, primo libro di una trilogia, che Calabuig – curiosissimo laboratorio in seno a Jaca Book, dove non si disegnano per nulla storie e lingue di ogni angolo del mondo – ripropone nella traduzione dal francese di Graziano Benelli, in sé un lavoro maestoso, considerati gli elementi linguistici e culturali ispirati allo scrittore dalla terra d’origine.
Ne “Il comandante dello zucchero” le immense piantagioni di canna della colonia francese (melting pot di neri, bianchi, mulatti, con francesi, indigeni, ma anche cinesi, indiani e mediorientali) sono le vere protagoniste della narrazione, che si svolge a metà degli anni Trenta, in una società in cui la schiavitù non esiste più, ma dove le differenze della scala sociale – oltre al razzismo – sono più vive e rimarcate che mai, con il potere e le ricchezze in mano ai bianchi. L’antefatto? Il ricco Duplan de Montaubert, béké (cioè padrone) di una piantagione nel sud dell’Isola, stuzzica sulle previsioni dei dati della produzione annuale il comandante, il mulatto Firmin Lèandor (ex raccoglitore che ha saputo farsi strada), inducendolo a sbilanciarsi su una stima superiore alle attese, settecento barili (settecento volte ottomila chili) anziché seicento, da ottenere nei cento giorni della raccolta. Una sfida non da poco per Firmin, uomo dai saldi principi, che forse non ha tenuto conto di agenti atmosferici (dalle siccità agli uragani) e sociali (scioperi, o conflitti fra le varie etnie).
Il
lavoro e le stagioni che ne “Il comandante dello zucchero” si
susseguono tra fattoria, piantagione e raffineria sono il ritratto di
un mondo perduto, quello delle Indie Occidentali, crollato nel secolo
scorso. La mole del romanzo è notevole, ma lo stile musicale e il
ritmo della pagine non annoiano mai. Ci sono fatica e violenze, uno
spassionato realismo e passioni estremi, eppure non si tratta di un
romanzo cupo, perché fanno capolino anche ironia e sarcasmo,
ingredienti che non hanno mai fatto male alla ricetta di una storia.
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