Ai giovani negato il diritto di restare al Sud
Società | 20 dicembre 2025
È un Mezzogiorno dai forti contrasti quello che emerge dal rapporto Svimez 2025 intitolato “Freedom to move, right to stay”. L’occupazione giovanile cresce come non mai – +6,4% – grazie ai fondi Pnrr e agli investimenti statali, ma non si arresta l’emorragia dei giovani, soprattutto laureati, in cerca di migliori opportunità al Nord e all’estero. Più lavoro, sì, ma non migliori condizioni di vita, né opportunità professionali adeguate alle competenze. A fronte di 100mila giovani occupati, 175 mila lasciano il Sud con una perdita secca di quasi 8 miliardi di euro l’anno per il Mezzogiorno. Uno spreco non solo di capitale umano, ma anche di investimento pubblico sostenuto per la loro formazione.
Se, infatti, negli ultimi anni si è ridotta la migrazione ante-lauream – nelle università del Sud si registrano livelli inediti sia per immatricolati lauree triennali (94 mila studenti, +2% dell’anno procedente) sia magistrali (45 mila studenti, +11% dell’anno precedente) – l’esodo verso il Centro-Nord dopo l’acquisizione del titolo accademico resta massiccio: si tratta di oltre 40 mila giovani meridionali che ogni anno alimentano crescita e innovazione altrove. Con un bilancio economico di questo movimento molto pesante: dal 2000 al 2024 il Mezzogiorno perde di investimenti 132 miliardi di euro di capitale umano. Chi resta, invece, trova lavori poco qualificati e mal retribuiti. Non a caso la metà dei lavoratori poveri italiani – un milione e duecentomila – sono al Sud. Le opportunità professionali nelle regioni meridionali sono legate principalmente al settore turistico: oltre un terzo dei nuovi addetti giovani si colloca nella ristorazione e nell’accoglienza, settori a bassa specializzazione e remunerazione. Gli sbocchi professionali nel mercato del lavoro meridionale continuano, pertanto, a chiudere le porte a chi ha competenze elevate da spendere, cosicché la mobilità giovanile permane una scelta obbligata.
Il diritto a restare al Sud sembra dunque essere negato, nonostante il Meridione, grazie ai fondi Pnrr, tra il 2021 e 2024 abbia visto aumentare il proprio Pil dell’8,5% contro il 5,8% del Centro-Nord, e malgrado si preveda un contributo delle regioni meridionali alla crescita del Pil italiano per i prossimi anni – +0,7% nel 2025 +0,9% nel 2026 maggiore di quello dell’area del Centro-Nord. La possibilità di scegliere di restare deve avvalersi non soltanto del consolidamento dei cambiamenti innescati dal mix di risorse europee e nazionali investite negli ultimi anni – quali la crescita dei servizi Ict, il miglioramento dell’attrattività delle università meridionali e lo sviluppo dei settori industriali capaci di catalizzare innovazione e guidare la transizione digitale e green – ma anche del potenziamento delle infrastrutture, incluse quelle sociali, dell’aumento dei settori a domanda di lavoro qualificata e di una maggiore partecipazione femminile nel mercato del lavoro, nel sistema della ricerca e nella sfera politica e decisionale.
Il Meridione deve poter ridurre il marcato divario infrastrutturale rispetto al Centro-Nord, con riferimento tanto alle infrastrutture ferroviarie ad alta velocità, ai servizi sanitari e alla rete impiantistica per la gestione dei rifiuti. A titolo esemplificativo, posto uguale a 100 l’indice medio di accessibilità Italia per le infrastrutture ospedaliere, il Mezzogiorno registra un valore pari ad appena 68 contro il 132 del Nord e il 118 del Centro.
Nel report trovano spazio anche i dati dell’analisi Svimez-Guardia di finanza sui reati economici dal 2010 al 2024. Nel quindicennio considerato sono stati riciclati 61,4 miliardi di euro, di cui 29,8 miliardi al Nord, 20,3 miliardi al Centro e 11,3 miliardi nel Mezzogiorno. Oltre l’80% dei capitali sporchi trova quindi sbocco nelle regioni più ricche, in particolare Lazio, Toscana, Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte.
Come sottolineato dalla Svimez, vi è una profonda contraddizione nelle attuali politiche pubbliche italiane rispetto alle finalità che hanno animato il Pnrr. Questi fondi, infatti, sono stati concepiti per ridurre i divari territoriali, migliorare i servizi essenziali e rafforzare la capacità amministrativa delle aree più fragili, soprattutto nel Mezzogiorno. Allo stesso tempo, però, il Governo porta avanti le pre-intese sull’autonomia differenziata, che rischiano di aumentare le disuguaglianze, sottraendo risorse e competenze condivise e frammentando i diritti di cittadinanza. Così, una riforma nata per ricucire il Paese si sovrappone a un’altra che può accentuarne le fratture. Senza un quadro unitario, gli effetti positivi del Pnrr rischiano di indebolirsi proprio ora che stanno emergendo.
di Alida Federico
Se, infatti, negli ultimi anni si è ridotta la migrazione ante-lauream – nelle università del Sud si registrano livelli inediti sia per immatricolati lauree triennali (94 mila studenti, +2% dell’anno procedente) sia magistrali (45 mila studenti, +11% dell’anno precedente) – l’esodo verso il Centro-Nord dopo l’acquisizione del titolo accademico resta massiccio: si tratta di oltre 40 mila giovani meridionali che ogni anno alimentano crescita e innovazione altrove. Con un bilancio economico di questo movimento molto pesante: dal 2000 al 2024 il Mezzogiorno perde di investimenti 132 miliardi di euro di capitale umano. Chi resta, invece, trova lavori poco qualificati e mal retribuiti. Non a caso la metà dei lavoratori poveri italiani – un milione e duecentomila – sono al Sud. Le opportunità professionali nelle regioni meridionali sono legate principalmente al settore turistico: oltre un terzo dei nuovi addetti giovani si colloca nella ristorazione e nell’accoglienza, settori a bassa specializzazione e remunerazione. Gli sbocchi professionali nel mercato del lavoro meridionale continuano, pertanto, a chiudere le porte a chi ha competenze elevate da spendere, cosicché la mobilità giovanile permane una scelta obbligata.
Il diritto a restare al Sud sembra dunque essere negato, nonostante il Meridione, grazie ai fondi Pnrr, tra il 2021 e 2024 abbia visto aumentare il proprio Pil dell’8,5% contro il 5,8% del Centro-Nord, e malgrado si preveda un contributo delle regioni meridionali alla crescita del Pil italiano per i prossimi anni – +0,7% nel 2025 +0,9% nel 2026 maggiore di quello dell’area del Centro-Nord. La possibilità di scegliere di restare deve avvalersi non soltanto del consolidamento dei cambiamenti innescati dal mix di risorse europee e nazionali investite negli ultimi anni – quali la crescita dei servizi Ict, il miglioramento dell’attrattività delle università meridionali e lo sviluppo dei settori industriali capaci di catalizzare innovazione e guidare la transizione digitale e green – ma anche del potenziamento delle infrastrutture, incluse quelle sociali, dell’aumento dei settori a domanda di lavoro qualificata e di una maggiore partecipazione femminile nel mercato del lavoro, nel sistema della ricerca e nella sfera politica e decisionale.
Il Meridione deve poter ridurre il marcato divario infrastrutturale rispetto al Centro-Nord, con riferimento tanto alle infrastrutture ferroviarie ad alta velocità, ai servizi sanitari e alla rete impiantistica per la gestione dei rifiuti. A titolo esemplificativo, posto uguale a 100 l’indice medio di accessibilità Italia per le infrastrutture ospedaliere, il Mezzogiorno registra un valore pari ad appena 68 contro il 132 del Nord e il 118 del Centro.
Nel report trovano spazio anche i dati dell’analisi Svimez-Guardia di finanza sui reati economici dal 2010 al 2024. Nel quindicennio considerato sono stati riciclati 61,4 miliardi di euro, di cui 29,8 miliardi al Nord, 20,3 miliardi al Centro e 11,3 miliardi nel Mezzogiorno. Oltre l’80% dei capitali sporchi trova quindi sbocco nelle regioni più ricche, in particolare Lazio, Toscana, Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte.
Come sottolineato dalla Svimez, vi è una profonda contraddizione nelle attuali politiche pubbliche italiane rispetto alle finalità che hanno animato il Pnrr. Questi fondi, infatti, sono stati concepiti per ridurre i divari territoriali, migliorare i servizi essenziali e rafforzare la capacità amministrativa delle aree più fragili, soprattutto nel Mezzogiorno. Allo stesso tempo, però, il Governo porta avanti le pre-intese sull’autonomia differenziata, che rischiano di aumentare le disuguaglianze, sottraendo risorse e competenze condivise e frammentando i diritti di cittadinanza. Così, una riforma nata per ricucire il Paese si sovrappone a un’altra che può accentuarne le fratture. Senza un quadro unitario, gli effetti positivi del Pnrr rischiano di indebolirsi proprio ora che stanno emergendo.
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