Chi vince e chi perde, l'età dell'oro dell'industria bellica sui fronti di guerra
L'analisi | 28 dicembre 2023
Chi sta vincendo e chi sta perdendo in Ucraina e in Medio Oriente? Risposta facile facile. Vincono Putin e gli ayatollah iraniani. Perdono Stati Uniti, Nato, Unione Europea, Ucraina, Israele. E i palestinesi.
Poco c’è mancato che la rivista americana “Time” incoronasse “personaggio dell’anno” Putin. Bel colpo per un politico su cui pende un mandato d’arresto per crimini di guerra spiccato dal Tribunale Penale Internazionale de L’Aja. Beninteso, lo zar Vladimir – al timone della Russia dal 31 dicembre 1999, già candidatosi per un quinto mandato (per la serie i dittatori chiudono bottega solo quando tirano le cuoia) – è in buona compagnia in fatto di presidenti e primi ministri con le mani insanguinate. Sta diventando una costante della nostra epoca. Lontanissimi i tempi dei pacificatori alla Adenauer e De Gasperi. In un mondo impazzito, immemore dell’ecatombe di due guerre mondiali, ora si usa così.
Ma torniamo al nostro caro Putin. Fallita la velleitaria controffensiva ucraina del 2023, fallito l’effetto devastante che avrebbero dovuto avere le sanzioni di Stati Uniti e Unione Europea sull’economia russa (a conferma di come siano arma spuntata, inefficace), stretti accordi militari anche con la Corea del Nord soprattutto per la fornitura di proiettili di cannoni e fucili che si utilizzano a milioni in Ucraina (fonti dei servizi segreti occidentali hanno parlato di mille container nordcoreani stracolmi di munizioni con destinazione Russia) Putin ha ripreso slancio nella sua “operazione speciale”. Gli aggressori sono baciati dalla sorte o – più semplicemente – sono più forti, più numerosi, più armati degli aggrediti. Mentre il presidente ucraino Zelensky implora armi a destra e a manca il suo collega Putin le ottiene. E non si fa pregare per usarle contro gli ucraini, militari e civili, uomini e donne, bambini e anziani.
Avete visto come da alcuni mesi a questa parte – chiodo schiaccia chiodo – di Ucraina si parli decisamente meno rispetto a prima del 7 ottobre? Conflitto non più nelle aperture di notiziari e mass media. Inviati speciali trasferiti in massa da Kiev, Odessa, Charkiv, Dnipro a Gerusalemme e dintorni. Se non spento, di sicuro molto affievolito il fervore assistenziale dell’Occidente per Kiev. La guerra in Ucraina si è divorata una quantità inverosimile di armi mandate lì dall’Occidente. Che si ritrova ora addirittura a corto di munizioni e di mezzi per le proprie esigenze di difesa, con i depositi semivuoti. Ma Putin non è stato né sconfitto né indebolito. Al contrario. È più che mai in sella. Cinico e spregiudicato, oltre ai precedenti protettorati russi – nei paesi asiatici dell’ex Urss, in Siria, in Cirenaica – ora con l’ausilio dei suoi mercenari della Wagner ha messo sotto protettorato in Africa, nel Sahel, Mali, Niger, Burkina Faso, Ciad. “Dal cuore dell’Africa alla Cirenaica la rotta dei disperati è ora tutta in mano a Mosca. Che può usarla come arma contro l’Europa” avverte “la Repubblica” il 7 dicembre 2023 in un articolo intitolato “Un patto con il Niger e ora Putin controlla i flussi dei profughi”. Lo firma Gianluca Di Feo che scrive: “Effetto domino in Africa. Il Cremlino è riuscito ad abbattere la tessera finale e mettere gli scarponi dei suoi soldati anche nel Niger: l’ultimo baluardo dell’Occidente nel Sahel è caduto, facendo scattare l’allarme rosso in più cancellerie. Ora l’influenza armata di Vladimir Putin si estende dalle coste della Cirenaica al cuore del continente, senza soluzione di continuità: un protettorato come non si vedeva dai tempi dell’Urss (…)”.
Sotto protettorato russo in America continuano ad essere Cuba e Venezuela.
L’1 gennaio 2024 il gruppo dei paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) – ostile all’economia globale imperniata sul dollaro, con caratterizzazione fortemente antioccidentale e “sudista”, nel senso di porsi come “difensore” (interessato!) del “sud globale”, del sud del mondo – si allargherà ad altri cinque paesi. Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti saranno le “new entry” nel BRICS allargato. Della partita doveva essere anche l’Argentina ma il neo presidente Melei, filoccidentale e ultraliberista, ha fatto sapere che non farà aderire il suo paese ai BRICS. “Non ci alleeremo con i comunisti” ha tagliato corto. BRICS: consesso alternativo al G7 mentre nel G20 sono presenti sia nazioni che fanno parte del G7 che del concorrente gruppo BRICS. Tanto per avere un ordine di grandezze: il BRICS a cinque vale il 32 per cento del Pil globale che diventa il 36 per cento con i nuovi ingressi (un po’ meno considerato il ripensamento di Buenos Aires) e ingloba il 47 per cento della popolazione terrestre. Superfluo notare che dei BRICS – nella formula originale o allargata che sia – il ricercato per crimini di guerra Vladimir Putin è uno degli azionisti più convinti, anzi un ispiratore. Mica male per uno che i fan delle sanzioni occidentali a Mosca dopo l’avvio della “operazione speciale” in Ucraina davano prima o poi per spacciato.
L’altro vincente: l’Iran
Veniamo al secondo vincente, la “guida suprema” iraniana Alì Khamenei. La teocrazia islamica degli ayatollah e dei mullah di Teheran tra un assassinio di stato e l’altro di qualche sventurata ragazza rea di non coprirsi dalla testa ai piedi con l’hijab, il velo nero, tra una incarcerazione e l’altra di migliaia di dissidenti, in prevalenza giovani e donne condannati per un nonnulla a decenni di carcere duro, tra una feroce repressione e l’altra ha stretto un legame di ferro con Mosca. Foraggiandola di migliaia di droni “made in Iran”. Economici, a buon mercato, letali, impiegati massicciamente in ogni angolo del “martoriato” territorio ucraino, come lo definisce il papa.
L’asse di ferro Mosca-Teheran è solido non solo dalle parti del fiume Dnepr ma non meno dalle parti del fiume Giordano. Illuminante al riguardo l’analisi che fa Anna Zafesova il 29 ottobre 2023 su “AffarInternazionali” in un articolo intitolato “Le nuove alleanze di Mosca in Medio Oriente”: “(…) Oggi, tra gli alleati e gli interlocutori più fidati della diplomazia di Mosca ci sono Hamas e i talebani, l’Iran e la Cecenia islamizzata di Ramzan Kadyrov, il cui figlio picchia davanti alle telecamere un russo accusato di aver bruciato il Corano (…)”. A questo punto l’analista italo-russa delinea quella che definisce la “Teoria della triangolazione”: “Il pragmatismo – manifestato dalla diplomazia putiniana essenzialmente fuori dall’Europa e dall’Occidente – che aveva permesso al Cremlino di dialogare con un certo successo con attori diversi e spesso conflittuali come l’Iran, l’Arabia Saudita e i regimi arabi laici come l’Egitto – è stato sostituito da un approccio che si basa sulla triangolazione “il nemico del mio nemico è un mio amico”. Se Israele e Ucraina vengono aiutati dagli Stati Uniti e dall’Europa, schierarsi a fianco di Hamas e dell’Iran diventa abbastanza inevitabile. E se Putin vuole conquistarsi le simpatie del “Sud globale” con un discorso anticoloniale, come quello che ha portato sia al vertice dei BRICS che a quello di Belt&Road a Pechino, è una scelta di campo che limita la sua potenziale libertà di manovra quanto la dipendenza dalle forniture militari di Teheran.
Nella posizione di Putin, si tratta comunque di alleanze abbastanza logiche, sia nell’ottica di recupero di tutta l’eredità sovietica, compreso il tradizionale rapporto con il mondo arabo in chiave anti-israeliana e anti-americana, sia ai fini tattici della guerra contro l’Ucraina. Non a caso Volodymyr Zelensky ha messo in guardia l’Europa contro il nuovo “asse del Male” che potrebbe formarsi a Mosca: “I nemici della libertà sono molto interessati ad aprire un secondo fronte contro il mondo libero”. Il Cremlino in effetti sognava e cercava il secondo fronte da un anno e mezzo, e ora a livello mediatico, la guerra in Ucraina è già sparita dalle prime pagine internazionali, e Mosca spera che anche a livello di aiuti militari – nonostante le rassicurazioni di Joe Biden e dei leader europei – le esigenze di Kiev passino in secondo piano.
La logica di cercare amici tra i nemici dei propri nemici, e di scommettere sul tradizionale antisemitismo del nazionalismo russo – sintomatico l’incontro del presidente con i capi religiosi, durante il quale Putin e il patriarca Kirill hanno continuato a parlare di “Terra Santa” senza menzionare Israele – rischia di annientare un altro esercizio finora riuscito di “equidistanza” russa. Il miracolo di mantenere le relazioni contemporaneamente con l’Iran, la Siria e Israele – conclude la Zafesova – difficilmente potrà durare. È vero che la cospicua comunità di israeliani di origini ex sovietiche parla prevalentemente russo, simpatizza per la Russia e vota Netanyahu, che infatti non ha aderito alle sanzioni contro Mosca e non ha inviato aiuti (almeno non ufficialmente) all’Ucraina. È vero anche che l’élite imprenditoriale e culturale russa ha con Israele legami profondi. Ma è molto improbabile che Israele perdonerà a Mosca gli scambi di cortesie con Hamas (la visita della delegazione di Gaza è stata definita dal ministero degli Esteri dello Stato ebraico come “un passo osceno”), e il rifiuto ostentato a condannarne gli attacchi nelle sedi internazionali”.
Comunque sia, in Medio Oriente la dittatura misogina di Teheran ha vinto alla grande. Le sue tre succursali – “Hezbollah” in Libano, “Hamas” in Cisgiordania e in particolare a Gaza, “Houthi” nello Yemen – stanno facendo il possibile e l’impossibile per dimostrare quanto Israele sia intrinsecamente debole. L’attacco a Israele di Hamas partito da Gaza il 7 ottobre per le sue modalità disumane di proposito non poteva non suscitare una più che prevedibile reazione violenta dell’esercito con la stella di Davide che avrebbe messo a ferro e fuoco l’intera Striscia di Gaza. È stato fatto apposta – con i suoi eccidi, le sue deliberate brutalità sulla popolazione ebraica inerme, le sue vittime mutilate senza pietà, i suoi stupri, i suoi sequestri di lattanti di meno di un anno così come di anziani ultraottantenni – per far perdere la testa a tutti gli israeliani. Facendoli diventare come animali feriti, assetati di sangue e vendetta. Quelle stragi e la macelleria non meno disumana dei bombardamenti da terra, dal cielo e dal mare ordinati da Netanyahu con obiettivo Gaza alimenteranno ulteriore inestinguibile odio tra palestinesi ed ebrei non per anni ma per decenni o secoli. A Teheran si fregano le mani. Il rischio di una deflagrazione regionale che coinvolga direttamente l’Iran contro Israele aumenta ogni ora che passa ma intanto sono le succursali dell’Iran a combattere per procura. Mentre Israele conferma un assunto ormai storico: vince le guerre sul campo contro gli eserciti dei confinanti stati arabi, soffre maledettamente e perde i conflitti contro milizie e gruppi terroristici che si mimetizzano tra la gente, sottoterra, si acquartierano negli ospedali e nelle scuole. Inevitabile.
In modo martellante gli iraniani gridano ai quattro venti di essere i difensori, i paladini della causa palestinese. Come Hamas vogliono la distruzione dello stato “usurpatore” di Israele, vogliono che gli ebrei vengano ricacciati nei paesi da cui sono venuti in Israele già a cominciare da decenni prima della fondazione dello stato il 14 maggio 1948. E teorizzano che lo stato della Palestina, dal fiume Giordano al Mediterraneo, prenda il suo posto, si formi sui territori che ora sommano sulle carte geografiche Israele più Cisgiordania più Striscia di Gaza. Ipotesi semplicemente irrealistica. Il punto è che alla teocrazia iraniana, al di là della propaganda, di quel che costerà alla popolazione palestinese di Gaza la reazione israeliana importa un fico secco.
A Teheran hanno capito già da qualche anno a questa parte che Israele con i cosiddetti “Accordi di Abramo” (a nostro avviso uno dei pochi se non l’unico risultato condivisibile della vomitevole presidenza Trump) avevano smussato non poche asperità diplomatiche tra Israele e alcuni stati arabi (Emirati Arabi Uniti, Baharein, Marocco, Sudan). E hanno capito che un percorso simile si stava aprendo nientemeno tra il paese custode dei luoghi sacri islamici – l’Arabia Saudita – e Israele. Questi “venti di pace” andavano interrotti ad ogni costo. Anche al prezzo di devastazioni senza fine e migliaia e migliaia di morti palestinesi da gettare sul piatto della bilancia nel contrasto tra l’Iran scita e l’Arabia Saudita sunnita. I primi non arabi, i secondi arabi. Entrambi sempre più impegnati dal 2014 nella guerra civile in Yemen tra sciti e sunniti. Uno dei tanti conflitti nei quali si combatte per procura anche se i sauditi non hanno disdegnato loro bombardamenti aerei diretti contro la fazione scita yemenita – gli houthi - appoggiata da Teheran.
Israele, Turchia, Iran, Egitto, Arabia Saudita sono gli attori statuali di maggiore peso nel Vicino Oriente, assieme al “piccolo” ma ricchissimo e ambiguo Qatar. Si definiscono potenze regionali. Più o meno aggressive, hanno sempre utilizzato la “causa palestinese” per ammantare di nobili ideali quello che non è altro che bieco tornaconto nazionale. L’Iran ha comunque già vinto perché il conflitto esploso a ottobre tra israeliani e palestinesi di Hamas ha mandato in soffitta gli “Accordi di Abramo”. Rischiavano di stabilire nuovi rapporti di forza nell’area. Persino, da qui a qualche anno, un impensabile nuovo asse Israele-Arabia Saudita e forse Emirati Arabi Uniti in funzione antiraniana, visti i rapporti conflittuali tra Teheran e Riad. Il 20 settembre 2023 il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha avvertito che il suo Paese “dovrà procurarsi” un’arma nucleare nel caso in cui l’Iran ne sviluppi una propria. Per non parlare dei rapporti conflittuali dal 1979 tra Teheran e Tel Aviv dopo il ritorno dell’ayatollah Khomeini dall’esilio francese e l’avvento della spietata dittatura teocratica. Tutto rientrato al punto che – con la Cina a fare da mediatrice – delegazioni ad alto livello iraniane e saudite si sono incontrate e che dopo l’attacco del governo di Tel Aviv a Gaza per sauditi e iraniani il nemico è tornato ad essere quello di sempre: Israele.
In questi ultimi giorni due avvenimenti fanno temere una deflagrazione generale nella regione. Il primo: gli houthi yemeniti attaccano petroliere e navi portacontainer che dall’Oceano Indiano attraversano lo Stretto di Aden in direzione del Mar Rosso e del canale di Suez. Troppo rischio. Tante società di navigazione hanno ripreso a percorrere la rotta che circumnaviga il continente africano con costi aggiuntivi di carburante e assicurazione. Di cui avvertiremo gli effetti sui prezzi nelle prossime settimane. Il secondo: il 25 dicembre i servizi segreti israeliani hanno fatto fuori, con uno dei loro “omicidi mirati”, a Damasco, in Siria, Razi Mousavi, generale delle guardie rivoluzionarie dei Pasdaran iraniani, l’esercito ideologico della teocrazia islamica. Uno degli artefici della “esportazione” della “rivoluzione” iraniana che si traduce nell’armare gli sciti e nel seminare tensione nell’intero Medio Oriente. L’omicidio mirato ricorda quello di un altro pezzo grosso iraniano, Qassem Soleimani, eliminato a Bagdad il 3 gennaio 2020 in un raid degli americani. A Teheran hanno giurato: “Israele pagherà”.
Se i migliori servizi segreti del mondo e uno dei più potenti eserciti del mondo fanno cilecca
Dopo la sorpresa devastante, riuscita, dell’incursione di sabato 7 ottobre dei terroristi di Hamas nei villaggi e kibbutz ebraici a ridosso della Striscia di Gaza il mito della invincibilità e dell’efficienza di servizi segreti ed esercito con la stella di Davide è andato in frantumi. La società israeliana ha mostrato tutte le sue crepe, contraddizioni, divisioni. Si è però ri-cementata – dopo le tante lotte politiche interne dell’ultimo anno – l’unità nazionale. Nella convinzione che bisogna combattere per non sparire. Come migliaia di anni fa da quelle parti, come dopo la fondazione dello stato israeliano e la guerra dichiarata dalle nazioni arabe confinanti. Ma può avere un futuro la democrazia nello stato di Israele guidato da un governo oltranzista di destra che a più destra non si può? Può avere un futuro un paese ostaggio di fanatici estremisti ortodossi spalleggiati dal governo i quali teorizzano e costruiscono a ritmi frenetici insediamenti abitativi nella Cisgiordania palestinese che rendono impraticabile la tanto invocata quanto problematica formula dei “due popoli e due stati”? Può avere un futuro Israele governato da un primo ministro più che screditato come Benjamin Netanyahu?
La spietata reazione di Israele a Gaza non ha fatto di certo crescere le simpatie per la nazione ebraica nelle opinioni pubbliche del mondo. Erano già tiepide prima, ora corrono il rischio di andare ancora più giù. E di molto. Persino alla Casa Bianca Netanyahu sta creando imbarazzi e disappunto. Il 12 dicembre Biden (che con il premier israeliano non ha mai avuto un rapporto di particolare stima) ha finito per perdere la pazienza. Clamorosamente. Il governo israeliano “non vuole una soluzione a due stati” con i palestinesi. Il presidente statunitense lo afferma evidenziando la differenza con la posizione della sua amministrazione, favorevole ai due stati. E aggiunge che questo governo in carica a Tel Aviv “è il governo più conservatore nella storia di Israele”. Ne eravamo tutti arciconvinti ma che lo dichiari in modo così esplicito e risentito il presidente degli Stati Uniti, da sempre principale alleato di Israele, fa un certo effetto. Per Biden il premier israeliano deve prendere “decisioni dure” e trovare una soluzione a lungo termine al conflitto israelo-palestinese” perché “Israele sta cominciando a perdere sostegno in tutto il mondo”. Anche questo lo sapevamo ma torna il discorso dell’effetto amplificato di quello che si afferma stante la tribuna dalla quale viene pronunciato.
Niente dei piani di Biden ha funzionato
Gli americani sono perdenti sia in Europa che nel Medio Oriente. Niente dei piani di Biden ha funzionato. Gli Usa si trovano ora alle prese con due conflitti nei quali sono direttamente coinvolti, mandando armi nel primo e potenti portaerei d’attacco per mettere in guardia l’Iran nel secondo. Miliardi di dollari di armi fornite agli ucraini non hanno cambiato le sorti dell’“operazione speciale” putiniana, definizione ipocrita di una vile aggressione. Nell’altro scenario, quello mediorientale, il nemico giurato Iran dà le carte, alza, gioca, le conta e vince. Il consolidamento degli “Accordi di Abramo”, in particolare lo storico disgelo tra i pluridecennali nemici Arabia Saudita e Israele, sponsorizzato da Washington, è ora crollato come un castello di sabbia nella spiaggia. Nel giro di qualche settimana. Le elezioni presidenziali del 2024 sono alle porte negli Usa. I repubblicani al Congresso non intendono cacciare soldi per continuare ad armare l’esercito di Kiev per evitare che sia travolto dall’apparato militare russo perché quello ucraino è un pozzo senza fondo. Ma anche per indebolire il già debole Biden. All’orizzonte incombe la rielezione di Trump e dunque il ritorno alla Casa Bianca di un individuo decisamente sgradevole. Ed è tutto dire. Sai che prospettiva. A Mosca Putin ha di che compiacersi: tutto va al meglio per i suoi piani e secondo i suoi piani.
La Nato, alleanza politico-militare a trazione americana – dopo la voce grossa da un paio di anni a questa parte e dopo il suo allargamento che ora include le neoentrate Svezia e Finlandia – appare nelle ultime settimane come i cani bastonati che vanno con la coda tra le gambe. Il segretario generale della Nato, il norvegese Jens Stoltenberg – una specie di logorroico del linguaggio militare e militaresco fino a non molte settimane fa – il 3 dicembre ha preparato il terreno avvertendo: “Dobbiamo essere preparati anche alle cattive notizie: le guerre si sviluppano per fasi, ma dobbiamo stare al fianco dell'Ucraina nella buona e nella cattiva sorte".
Il secondo fronte aperto, il mediorientale, fa interrogare gli alleati europei degli Stati Uniti e la subalterna Unione Europea: continuare ad aiutare o non continuare ad aiutare Kiev con massicci rifornimenti di armi che però non invertono l’andazzo del conflitto? L’amletico dubbio diventa sempre più stringente se neppure Washington pare capace di continuare perché Biden non riesce ad avere la forza politica per fare breccia rispetto al “niet” dei repubblicani. Così a parole Unione Europea e tutti i leader europei, tranne ungheresi e slovacchi, giurano che il sostegno continuerà forte e solido come prima ma nella realtà ci si interroga su quando e come uscire dal pozzo senza fondo, dal pantano ucraino. Da perdenti. Lo evidenzia il 4 dicembre Lorenzo Santucci sull’“Huffington Post Italia” in un articolo intitolato “Casse vuote e alleati scontenti (in casa e fuori): le angosce di Zelensky”: “Attorno all’Ucraina sta crescendo un allarmante pessimismo. Le pacche sulle spalle non sono venute meno, il sostegno politico viene riaffermato, ma di aiuti militari e finanziari ne arrivano sempre di meno. L’inverno è alle porte e il logoramento sul campo militare si fa sentire ogni giorno di più (…)”.
Dopo la missione in Usa del presidente ucraino del 12 dicembre per far recedere nel Congresso i repubblicani – che alla Camera dei rappresentanti beneficiano di una risicata maggioranza – dal loro no al nuovo stanziamento di aiuti (si definiscono così ma si tratta di nuove armi e munizioni) di ben 61 miliardi di dollari, riteniamo che prima o poi la faccenda si sbloccherà positivamente per Kiev. Sulla pelle di migliaia di derelitti che dall’America latina via Messico vogliono entrare clandestinamente da sud negli Stati Uniti. Il baratto sta in questi termini per i repubblicani: diamo l’ok agli aiuti a Ucraina e Israele se ai confini con il Messico non passa più nessuno. Insomma, se otteniamo più muro anti-immigrati autorizziamo più armi a Kiev oppure buona notte ai suonatori in Ucraina. Quando si dice uno slancio di moralità…
Ogni anno che passa l’Europa somiglia sempre più a un vecchio castello medievale assediato da tutte le parti, destinato ad essere espugnato e smantellato. Gli Usa iniziano le guerre nel mondo, si portano appresso il sostegno degli acquiescenti alleati europei e asiatici. Poi si disimpegnano per divergenze di strategie politiche interne tra le leadership democratica e repubblicana e per le troppe bare di soldati americani che rientrano in patria. E lasciano in tredici sul da farsi i subalterni alleati. Prassi che nel XXI secolo continua come nella seconda metà del XX.
Anche Pechino si compiace della circostanza che Washington sia alle prese con le elezioni presidenziali del 2024 (ecco perché a Pechino e a Mosca si predilige perpetuare il potere dell’uomo solo al comando con tanti mandati che si possono inanellare e con comode elezioni addomesticate!).
A Pechino si fa una ovvia valutazione: gli Usa contemporaneamente alle prese con due conflitti importanti possono fare meno la voce grossa nel Sud-est asiatico, in quello che nel vocabolario della geopolitica si definisce Indo-Pacifico. Meno attenzione e meno navi da guerra americane da quelle parti significa che lo scontro Stati Uniti – Cina rimane previsione facile (il nodo di Taiwan e la determinazione della Cina a riannetterla resta più che mai all’ordine del giorno, sempre inquietante) ma sembra per forza di cose meno dietro l’angolo rispetto a tre-quattro anni fa.
Però un dato nuovo si sta profilando. Se finora a provare a stendere un cordone navale e aereo per contenere l’espansionismo cinese nell’Indo-Pacifico e l’aspirazione a superpotenza globale di Pechino sono stati Usa, Giappone, Sud Corea e Australia, adesso aumenta il numero di grandi navi da guerra in linea o in cantiere destinate a questa finalità dal governo di Nuova Delhi. L’India si è ormai candidata a diventare nuova grande potenza militare nello scacchiere Asia-Oceania. E della partita cominciano ad essere anche altri paesi dell’area, meno potenti ma non meno preoccupati dall’espansionismo cinese. Come Vietnam e Filippine.
Non c’è che dire: quella che viviamo è una “Golden Age”, una età dell’oro, per chi produce sistemi d’arma, carri armati, droni, velivoli e navi da guerra.
di Pino Scorciapino
Poco c’è mancato che la rivista americana “Time” incoronasse “personaggio dell’anno” Putin. Bel colpo per un politico su cui pende un mandato d’arresto per crimini di guerra spiccato dal Tribunale Penale Internazionale de L’Aja. Beninteso, lo zar Vladimir – al timone della Russia dal 31 dicembre 1999, già candidatosi per un quinto mandato (per la serie i dittatori chiudono bottega solo quando tirano le cuoia) – è in buona compagnia in fatto di presidenti e primi ministri con le mani insanguinate. Sta diventando una costante della nostra epoca. Lontanissimi i tempi dei pacificatori alla Adenauer e De Gasperi. In un mondo impazzito, immemore dell’ecatombe di due guerre mondiali, ora si usa così.
Ma torniamo al nostro caro Putin. Fallita la velleitaria controffensiva ucraina del 2023, fallito l’effetto devastante che avrebbero dovuto avere le sanzioni di Stati Uniti e Unione Europea sull’economia russa (a conferma di come siano arma spuntata, inefficace), stretti accordi militari anche con la Corea del Nord soprattutto per la fornitura di proiettili di cannoni e fucili che si utilizzano a milioni in Ucraina (fonti dei servizi segreti occidentali hanno parlato di mille container nordcoreani stracolmi di munizioni con destinazione Russia) Putin ha ripreso slancio nella sua “operazione speciale”. Gli aggressori sono baciati dalla sorte o – più semplicemente – sono più forti, più numerosi, più armati degli aggrediti. Mentre il presidente ucraino Zelensky implora armi a destra e a manca il suo collega Putin le ottiene. E non si fa pregare per usarle contro gli ucraini, militari e civili, uomini e donne, bambini e anziani.
Avete visto come da alcuni mesi a questa parte – chiodo schiaccia chiodo – di Ucraina si parli decisamente meno rispetto a prima del 7 ottobre? Conflitto non più nelle aperture di notiziari e mass media. Inviati speciali trasferiti in massa da Kiev, Odessa, Charkiv, Dnipro a Gerusalemme e dintorni. Se non spento, di sicuro molto affievolito il fervore assistenziale dell’Occidente per Kiev. La guerra in Ucraina si è divorata una quantità inverosimile di armi mandate lì dall’Occidente. Che si ritrova ora addirittura a corto di munizioni e di mezzi per le proprie esigenze di difesa, con i depositi semivuoti. Ma Putin non è stato né sconfitto né indebolito. Al contrario. È più che mai in sella. Cinico e spregiudicato, oltre ai precedenti protettorati russi – nei paesi asiatici dell’ex Urss, in Siria, in Cirenaica – ora con l’ausilio dei suoi mercenari della Wagner ha messo sotto protettorato in Africa, nel Sahel, Mali, Niger, Burkina Faso, Ciad. “Dal cuore dell’Africa alla Cirenaica la rotta dei disperati è ora tutta in mano a Mosca. Che può usarla come arma contro l’Europa” avverte “la Repubblica” il 7 dicembre 2023 in un articolo intitolato “Un patto con il Niger e ora Putin controlla i flussi dei profughi”. Lo firma Gianluca Di Feo che scrive: “Effetto domino in Africa. Il Cremlino è riuscito ad abbattere la tessera finale e mettere gli scarponi dei suoi soldati anche nel Niger: l’ultimo baluardo dell’Occidente nel Sahel è caduto, facendo scattare l’allarme rosso in più cancellerie. Ora l’influenza armata di Vladimir Putin si estende dalle coste della Cirenaica al cuore del continente, senza soluzione di continuità: un protettorato come non si vedeva dai tempi dell’Urss (…)”.
Sotto protettorato russo in America continuano ad essere Cuba e Venezuela.
L’1 gennaio 2024 il gruppo dei paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) – ostile all’economia globale imperniata sul dollaro, con caratterizzazione fortemente antioccidentale e “sudista”, nel senso di porsi come “difensore” (interessato!) del “sud globale”, del sud del mondo – si allargherà ad altri cinque paesi. Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti saranno le “new entry” nel BRICS allargato. Della partita doveva essere anche l’Argentina ma il neo presidente Melei, filoccidentale e ultraliberista, ha fatto sapere che non farà aderire il suo paese ai BRICS. “Non ci alleeremo con i comunisti” ha tagliato corto. BRICS: consesso alternativo al G7 mentre nel G20 sono presenti sia nazioni che fanno parte del G7 che del concorrente gruppo BRICS. Tanto per avere un ordine di grandezze: il BRICS a cinque vale il 32 per cento del Pil globale che diventa il 36 per cento con i nuovi ingressi (un po’ meno considerato il ripensamento di Buenos Aires) e ingloba il 47 per cento della popolazione terrestre. Superfluo notare che dei BRICS – nella formula originale o allargata che sia – il ricercato per crimini di guerra Vladimir Putin è uno degli azionisti più convinti, anzi un ispiratore. Mica male per uno che i fan delle sanzioni occidentali a Mosca dopo l’avvio della “operazione speciale” in Ucraina davano prima o poi per spacciato.
L’altro vincente: l’Iran
Veniamo al secondo vincente, la “guida suprema” iraniana Alì Khamenei. La teocrazia islamica degli ayatollah e dei mullah di Teheran tra un assassinio di stato e l’altro di qualche sventurata ragazza rea di non coprirsi dalla testa ai piedi con l’hijab, il velo nero, tra una incarcerazione e l’altra di migliaia di dissidenti, in prevalenza giovani e donne condannati per un nonnulla a decenni di carcere duro, tra una feroce repressione e l’altra ha stretto un legame di ferro con Mosca. Foraggiandola di migliaia di droni “made in Iran”. Economici, a buon mercato, letali, impiegati massicciamente in ogni angolo del “martoriato” territorio ucraino, come lo definisce il papa.
L’asse di ferro Mosca-Teheran è solido non solo dalle parti del fiume Dnepr ma non meno dalle parti del fiume Giordano. Illuminante al riguardo l’analisi che fa Anna Zafesova il 29 ottobre 2023 su “AffarInternazionali” in un articolo intitolato “Le nuove alleanze di Mosca in Medio Oriente”: “(…) Oggi, tra gli alleati e gli interlocutori più fidati della diplomazia di Mosca ci sono Hamas e i talebani, l’Iran e la Cecenia islamizzata di Ramzan Kadyrov, il cui figlio picchia davanti alle telecamere un russo accusato di aver bruciato il Corano (…)”. A questo punto l’analista italo-russa delinea quella che definisce la “Teoria della triangolazione”: “Il pragmatismo – manifestato dalla diplomazia putiniana essenzialmente fuori dall’Europa e dall’Occidente – che aveva permesso al Cremlino di dialogare con un certo successo con attori diversi e spesso conflittuali come l’Iran, l’Arabia Saudita e i regimi arabi laici come l’Egitto – è stato sostituito da un approccio che si basa sulla triangolazione “il nemico del mio nemico è un mio amico”. Se Israele e Ucraina vengono aiutati dagli Stati Uniti e dall’Europa, schierarsi a fianco di Hamas e dell’Iran diventa abbastanza inevitabile. E se Putin vuole conquistarsi le simpatie del “Sud globale” con un discorso anticoloniale, come quello che ha portato sia al vertice dei BRICS che a quello di Belt&Road a Pechino, è una scelta di campo che limita la sua potenziale libertà di manovra quanto la dipendenza dalle forniture militari di Teheran.
Nella posizione di Putin, si tratta comunque di alleanze abbastanza logiche, sia nell’ottica di recupero di tutta l’eredità sovietica, compreso il tradizionale rapporto con il mondo arabo in chiave anti-israeliana e anti-americana, sia ai fini tattici della guerra contro l’Ucraina. Non a caso Volodymyr Zelensky ha messo in guardia l’Europa contro il nuovo “asse del Male” che potrebbe formarsi a Mosca: “I nemici della libertà sono molto interessati ad aprire un secondo fronte contro il mondo libero”. Il Cremlino in effetti sognava e cercava il secondo fronte da un anno e mezzo, e ora a livello mediatico, la guerra in Ucraina è già sparita dalle prime pagine internazionali, e Mosca spera che anche a livello di aiuti militari – nonostante le rassicurazioni di Joe Biden e dei leader europei – le esigenze di Kiev passino in secondo piano.
La logica di cercare amici tra i nemici dei propri nemici, e di scommettere sul tradizionale antisemitismo del nazionalismo russo – sintomatico l’incontro del presidente con i capi religiosi, durante il quale Putin e il patriarca Kirill hanno continuato a parlare di “Terra Santa” senza menzionare Israele – rischia di annientare un altro esercizio finora riuscito di “equidistanza” russa. Il miracolo di mantenere le relazioni contemporaneamente con l’Iran, la Siria e Israele – conclude la Zafesova – difficilmente potrà durare. È vero che la cospicua comunità di israeliani di origini ex sovietiche parla prevalentemente russo, simpatizza per la Russia e vota Netanyahu, che infatti non ha aderito alle sanzioni contro Mosca e non ha inviato aiuti (almeno non ufficialmente) all’Ucraina. È vero anche che l’élite imprenditoriale e culturale russa ha con Israele legami profondi. Ma è molto improbabile che Israele perdonerà a Mosca gli scambi di cortesie con Hamas (la visita della delegazione di Gaza è stata definita dal ministero degli Esteri dello Stato ebraico come “un passo osceno”), e il rifiuto ostentato a condannarne gli attacchi nelle sedi internazionali”.
Comunque sia, in Medio Oriente la dittatura misogina di Teheran ha vinto alla grande. Le sue tre succursali – “Hezbollah” in Libano, “Hamas” in Cisgiordania e in particolare a Gaza, “Houthi” nello Yemen – stanno facendo il possibile e l’impossibile per dimostrare quanto Israele sia intrinsecamente debole. L’attacco a Israele di Hamas partito da Gaza il 7 ottobre per le sue modalità disumane di proposito non poteva non suscitare una più che prevedibile reazione violenta dell’esercito con la stella di Davide che avrebbe messo a ferro e fuoco l’intera Striscia di Gaza. È stato fatto apposta – con i suoi eccidi, le sue deliberate brutalità sulla popolazione ebraica inerme, le sue vittime mutilate senza pietà, i suoi stupri, i suoi sequestri di lattanti di meno di un anno così come di anziani ultraottantenni – per far perdere la testa a tutti gli israeliani. Facendoli diventare come animali feriti, assetati di sangue e vendetta. Quelle stragi e la macelleria non meno disumana dei bombardamenti da terra, dal cielo e dal mare ordinati da Netanyahu con obiettivo Gaza alimenteranno ulteriore inestinguibile odio tra palestinesi ed ebrei non per anni ma per decenni o secoli. A Teheran si fregano le mani. Il rischio di una deflagrazione regionale che coinvolga direttamente l’Iran contro Israele aumenta ogni ora che passa ma intanto sono le succursali dell’Iran a combattere per procura. Mentre Israele conferma un assunto ormai storico: vince le guerre sul campo contro gli eserciti dei confinanti stati arabi, soffre maledettamente e perde i conflitti contro milizie e gruppi terroristici che si mimetizzano tra la gente, sottoterra, si acquartierano negli ospedali e nelle scuole. Inevitabile.
In modo martellante gli iraniani gridano ai quattro venti di essere i difensori, i paladini della causa palestinese. Come Hamas vogliono la distruzione dello stato “usurpatore” di Israele, vogliono che gli ebrei vengano ricacciati nei paesi da cui sono venuti in Israele già a cominciare da decenni prima della fondazione dello stato il 14 maggio 1948. E teorizzano che lo stato della Palestina, dal fiume Giordano al Mediterraneo, prenda il suo posto, si formi sui territori che ora sommano sulle carte geografiche Israele più Cisgiordania più Striscia di Gaza. Ipotesi semplicemente irrealistica. Il punto è che alla teocrazia iraniana, al di là della propaganda, di quel che costerà alla popolazione palestinese di Gaza la reazione israeliana importa un fico secco.
A Teheran hanno capito già da qualche anno a questa parte che Israele con i cosiddetti “Accordi di Abramo” (a nostro avviso uno dei pochi se non l’unico risultato condivisibile della vomitevole presidenza Trump) avevano smussato non poche asperità diplomatiche tra Israele e alcuni stati arabi (Emirati Arabi Uniti, Baharein, Marocco, Sudan). E hanno capito che un percorso simile si stava aprendo nientemeno tra il paese custode dei luoghi sacri islamici – l’Arabia Saudita – e Israele. Questi “venti di pace” andavano interrotti ad ogni costo. Anche al prezzo di devastazioni senza fine e migliaia e migliaia di morti palestinesi da gettare sul piatto della bilancia nel contrasto tra l’Iran scita e l’Arabia Saudita sunnita. I primi non arabi, i secondi arabi. Entrambi sempre più impegnati dal 2014 nella guerra civile in Yemen tra sciti e sunniti. Uno dei tanti conflitti nei quali si combatte per procura anche se i sauditi non hanno disdegnato loro bombardamenti aerei diretti contro la fazione scita yemenita – gli houthi - appoggiata da Teheran.
Israele, Turchia, Iran, Egitto, Arabia Saudita sono gli attori statuali di maggiore peso nel Vicino Oriente, assieme al “piccolo” ma ricchissimo e ambiguo Qatar. Si definiscono potenze regionali. Più o meno aggressive, hanno sempre utilizzato la “causa palestinese” per ammantare di nobili ideali quello che non è altro che bieco tornaconto nazionale. L’Iran ha comunque già vinto perché il conflitto esploso a ottobre tra israeliani e palestinesi di Hamas ha mandato in soffitta gli “Accordi di Abramo”. Rischiavano di stabilire nuovi rapporti di forza nell’area. Persino, da qui a qualche anno, un impensabile nuovo asse Israele-Arabia Saudita e forse Emirati Arabi Uniti in funzione antiraniana, visti i rapporti conflittuali tra Teheran e Riad. Il 20 settembre 2023 il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha avvertito che il suo Paese “dovrà procurarsi” un’arma nucleare nel caso in cui l’Iran ne sviluppi una propria. Per non parlare dei rapporti conflittuali dal 1979 tra Teheran e Tel Aviv dopo il ritorno dell’ayatollah Khomeini dall’esilio francese e l’avvento della spietata dittatura teocratica. Tutto rientrato al punto che – con la Cina a fare da mediatrice – delegazioni ad alto livello iraniane e saudite si sono incontrate e che dopo l’attacco del governo di Tel Aviv a Gaza per sauditi e iraniani il nemico è tornato ad essere quello di sempre: Israele.
In questi ultimi giorni due avvenimenti fanno temere una deflagrazione generale nella regione. Il primo: gli houthi yemeniti attaccano petroliere e navi portacontainer che dall’Oceano Indiano attraversano lo Stretto di Aden in direzione del Mar Rosso e del canale di Suez. Troppo rischio. Tante società di navigazione hanno ripreso a percorrere la rotta che circumnaviga il continente africano con costi aggiuntivi di carburante e assicurazione. Di cui avvertiremo gli effetti sui prezzi nelle prossime settimane. Il secondo: il 25 dicembre i servizi segreti israeliani hanno fatto fuori, con uno dei loro “omicidi mirati”, a Damasco, in Siria, Razi Mousavi, generale delle guardie rivoluzionarie dei Pasdaran iraniani, l’esercito ideologico della teocrazia islamica. Uno degli artefici della “esportazione” della “rivoluzione” iraniana che si traduce nell’armare gli sciti e nel seminare tensione nell’intero Medio Oriente. L’omicidio mirato ricorda quello di un altro pezzo grosso iraniano, Qassem Soleimani, eliminato a Bagdad il 3 gennaio 2020 in un raid degli americani. A Teheran hanno giurato: “Israele pagherà”.
Se i migliori servizi segreti del mondo e uno dei più potenti eserciti del mondo fanno cilecca
Dopo la sorpresa devastante, riuscita, dell’incursione di sabato 7 ottobre dei terroristi di Hamas nei villaggi e kibbutz ebraici a ridosso della Striscia di Gaza il mito della invincibilità e dell’efficienza di servizi segreti ed esercito con la stella di Davide è andato in frantumi. La società israeliana ha mostrato tutte le sue crepe, contraddizioni, divisioni. Si è però ri-cementata – dopo le tante lotte politiche interne dell’ultimo anno – l’unità nazionale. Nella convinzione che bisogna combattere per non sparire. Come migliaia di anni fa da quelle parti, come dopo la fondazione dello stato israeliano e la guerra dichiarata dalle nazioni arabe confinanti. Ma può avere un futuro la democrazia nello stato di Israele guidato da un governo oltranzista di destra che a più destra non si può? Può avere un futuro un paese ostaggio di fanatici estremisti ortodossi spalleggiati dal governo i quali teorizzano e costruiscono a ritmi frenetici insediamenti abitativi nella Cisgiordania palestinese che rendono impraticabile la tanto invocata quanto problematica formula dei “due popoli e due stati”? Può avere un futuro Israele governato da un primo ministro più che screditato come Benjamin Netanyahu?
La spietata reazione di Israele a Gaza non ha fatto di certo crescere le simpatie per la nazione ebraica nelle opinioni pubbliche del mondo. Erano già tiepide prima, ora corrono il rischio di andare ancora più giù. E di molto. Persino alla Casa Bianca Netanyahu sta creando imbarazzi e disappunto. Il 12 dicembre Biden (che con il premier israeliano non ha mai avuto un rapporto di particolare stima) ha finito per perdere la pazienza. Clamorosamente. Il governo israeliano “non vuole una soluzione a due stati” con i palestinesi. Il presidente statunitense lo afferma evidenziando la differenza con la posizione della sua amministrazione, favorevole ai due stati. E aggiunge che questo governo in carica a Tel Aviv “è il governo più conservatore nella storia di Israele”. Ne eravamo tutti arciconvinti ma che lo dichiari in modo così esplicito e risentito il presidente degli Stati Uniti, da sempre principale alleato di Israele, fa un certo effetto. Per Biden il premier israeliano deve prendere “decisioni dure” e trovare una soluzione a lungo termine al conflitto israelo-palestinese” perché “Israele sta cominciando a perdere sostegno in tutto il mondo”. Anche questo lo sapevamo ma torna il discorso dell’effetto amplificato di quello che si afferma stante la tribuna dalla quale viene pronunciato.
Niente dei piani di Biden ha funzionato
Gli americani sono perdenti sia in Europa che nel Medio Oriente. Niente dei piani di Biden ha funzionato. Gli Usa si trovano ora alle prese con due conflitti nei quali sono direttamente coinvolti, mandando armi nel primo e potenti portaerei d’attacco per mettere in guardia l’Iran nel secondo. Miliardi di dollari di armi fornite agli ucraini non hanno cambiato le sorti dell’“operazione speciale” putiniana, definizione ipocrita di una vile aggressione. Nell’altro scenario, quello mediorientale, il nemico giurato Iran dà le carte, alza, gioca, le conta e vince. Il consolidamento degli “Accordi di Abramo”, in particolare lo storico disgelo tra i pluridecennali nemici Arabia Saudita e Israele, sponsorizzato da Washington, è ora crollato come un castello di sabbia nella spiaggia. Nel giro di qualche settimana. Le elezioni presidenziali del 2024 sono alle porte negli Usa. I repubblicani al Congresso non intendono cacciare soldi per continuare ad armare l’esercito di Kiev per evitare che sia travolto dall’apparato militare russo perché quello ucraino è un pozzo senza fondo. Ma anche per indebolire il già debole Biden. All’orizzonte incombe la rielezione di Trump e dunque il ritorno alla Casa Bianca di un individuo decisamente sgradevole. Ed è tutto dire. Sai che prospettiva. A Mosca Putin ha di che compiacersi: tutto va al meglio per i suoi piani e secondo i suoi piani.
La Nato, alleanza politico-militare a trazione americana – dopo la voce grossa da un paio di anni a questa parte e dopo il suo allargamento che ora include le neoentrate Svezia e Finlandia – appare nelle ultime settimane come i cani bastonati che vanno con la coda tra le gambe. Il segretario generale della Nato, il norvegese Jens Stoltenberg – una specie di logorroico del linguaggio militare e militaresco fino a non molte settimane fa – il 3 dicembre ha preparato il terreno avvertendo: “Dobbiamo essere preparati anche alle cattive notizie: le guerre si sviluppano per fasi, ma dobbiamo stare al fianco dell'Ucraina nella buona e nella cattiva sorte".
Il secondo fronte aperto, il mediorientale, fa interrogare gli alleati europei degli Stati Uniti e la subalterna Unione Europea: continuare ad aiutare o non continuare ad aiutare Kiev con massicci rifornimenti di armi che però non invertono l’andazzo del conflitto? L’amletico dubbio diventa sempre più stringente se neppure Washington pare capace di continuare perché Biden non riesce ad avere la forza politica per fare breccia rispetto al “niet” dei repubblicani. Così a parole Unione Europea e tutti i leader europei, tranne ungheresi e slovacchi, giurano che il sostegno continuerà forte e solido come prima ma nella realtà ci si interroga su quando e come uscire dal pozzo senza fondo, dal pantano ucraino. Da perdenti. Lo evidenzia il 4 dicembre Lorenzo Santucci sull’“Huffington Post Italia” in un articolo intitolato “Casse vuote e alleati scontenti (in casa e fuori): le angosce di Zelensky”: “Attorno all’Ucraina sta crescendo un allarmante pessimismo. Le pacche sulle spalle non sono venute meno, il sostegno politico viene riaffermato, ma di aiuti militari e finanziari ne arrivano sempre di meno. L’inverno è alle porte e il logoramento sul campo militare si fa sentire ogni giorno di più (…)”.
Dopo la missione in Usa del presidente ucraino del 12 dicembre per far recedere nel Congresso i repubblicani – che alla Camera dei rappresentanti beneficiano di una risicata maggioranza – dal loro no al nuovo stanziamento di aiuti (si definiscono così ma si tratta di nuove armi e munizioni) di ben 61 miliardi di dollari, riteniamo che prima o poi la faccenda si sbloccherà positivamente per Kiev. Sulla pelle di migliaia di derelitti che dall’America latina via Messico vogliono entrare clandestinamente da sud negli Stati Uniti. Il baratto sta in questi termini per i repubblicani: diamo l’ok agli aiuti a Ucraina e Israele se ai confini con il Messico non passa più nessuno. Insomma, se otteniamo più muro anti-immigrati autorizziamo più armi a Kiev oppure buona notte ai suonatori in Ucraina. Quando si dice uno slancio di moralità…
Ogni anno che passa l’Europa somiglia sempre più a un vecchio castello medievale assediato da tutte le parti, destinato ad essere espugnato e smantellato. Gli Usa iniziano le guerre nel mondo, si portano appresso il sostegno degli acquiescenti alleati europei e asiatici. Poi si disimpegnano per divergenze di strategie politiche interne tra le leadership democratica e repubblicana e per le troppe bare di soldati americani che rientrano in patria. E lasciano in tredici sul da farsi i subalterni alleati. Prassi che nel XXI secolo continua come nella seconda metà del XX.
Anche Pechino si compiace della circostanza che Washington sia alle prese con le elezioni presidenziali del 2024 (ecco perché a Pechino e a Mosca si predilige perpetuare il potere dell’uomo solo al comando con tanti mandati che si possono inanellare e con comode elezioni addomesticate!).
A Pechino si fa una ovvia valutazione: gli Usa contemporaneamente alle prese con due conflitti importanti possono fare meno la voce grossa nel Sud-est asiatico, in quello che nel vocabolario della geopolitica si definisce Indo-Pacifico. Meno attenzione e meno navi da guerra americane da quelle parti significa che lo scontro Stati Uniti – Cina rimane previsione facile (il nodo di Taiwan e la determinazione della Cina a riannetterla resta più che mai all’ordine del giorno, sempre inquietante) ma sembra per forza di cose meno dietro l’angolo rispetto a tre-quattro anni fa.
Però un dato nuovo si sta profilando. Se finora a provare a stendere un cordone navale e aereo per contenere l’espansionismo cinese nell’Indo-Pacifico e l’aspirazione a superpotenza globale di Pechino sono stati Usa, Giappone, Sud Corea e Australia, adesso aumenta il numero di grandi navi da guerra in linea o in cantiere destinate a questa finalità dal governo di Nuova Delhi. L’India si è ormai candidata a diventare nuova grande potenza militare nello scacchiere Asia-Oceania. E della partita cominciano ad essere anche altri paesi dell’area, meno potenti ma non meno preoccupati dall’espansionismo cinese. Come Vietnam e Filippine.
Non c’è che dire: quella che viviamo è una “Golden Age”, una età dell’oro, per chi produce sistemi d’arma, carri armati, droni, velivoli e navi da guerra.
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