Referendum in archivio, democrazia debole

Politica | 9 giugno 2025
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Gli italiani hanno deciso di non dare via libera, con il voto, o meglio con l’astensione, ai 5 referendum indetti dalla Cgil. È un dato indiscutibile sul piano dei numeri ed inequivocabile sul piano politico. Verrebbe da dire, provocatoriamente, che alle quotidiane lamentele sulla disoccupazione, la libertà di licenziamento, i salari bassi e i contratti precari, il dominio del subappalto nel ciclo produttivo, non corrispondono comportamenti coerenti nel corpo elettorale, né di vicinanza né di solidarietà.

Erano difficili i quesiti? Di non larga comprensione? Forse sì. Forse il Referendum si è materializzato come la via più breve ma più impervia. Ma non possiamo eludere che, sul piano dei diritti sociali, c’è una componente della società che tende a scivolare verso il basso.

E ci sono ingiustizie ormai palesi. Se, negli anni ’70 e ’80 era ragionevole distinguere, sul piano dei diritti generali, le aziende sotto i 15 dipendenti da quelle sopra, le “rivoluzioni industriali” che abbiamo visto nel recente passato, almeno dagli anni 2000, ci hanno consegnato una assoluta relatività della dimensione d’impresa rispetto alla “forza” economica e finanziaria.

La grande impresa continua ad avere una condizione normativa, a partire dallo Statuto dei lavoratori, diversa da quella sotto i 15 dipendenti, la quale spesso, nei suoi asset economici e finanziari, gode di migliore capitalizzazione, diversificazione e soprattutto valore aggiunto.

La storia delle aziende digitali e tecnologiche, piccole ma ricche, dovrebbe bastare a fare una riflessione. Ovviamente, sul piano della politica e del Governo, di questi problemi nemmeno l’ombra… Ma il punto di fondo, quello di partenza, a mio parere, deve essere innanzitutto lo stato del paese.

Alle elezioni per il Parlamento europeo in Italia ha votato meno del 50% del corpo elettorale; si fa fatica a rinnovare tutti i contratti di lavoro ed a “tenere insieme” le organizzazioni sindacali; le relazioni sindacato-Confindustria sono sostanzialmente inesistenti e poggiano le loro relazioni su accordi figli di una fase politica che è superata.

Gli aumenti retributivi, infatti, sono ancora calcolati sull’inflazione, che non c’è quasi più e contribuisce al livellamento dei salari verso il basso. Le relazioni Governo-sindacato sono formali, di semplice registrazione delle posizioni delle forze sociali.

In Italia comincia a mancare la democrazia, e cioè il confronto, la maturazione del dibattito, lo scontro, certo, ma alla fine anche il tentativo di comporre le divergenze.

Più il paese si indebolisce e più si concentrano i poteri. È un tempo, questo, in cui la democrazia non sembra essere più nella mente e nel cuore di milioni di uomini e donne.

Pesa la fatica nella costruzione dell’edificio europeo e pesa l’indebolimento dell’idea di solidarietà.

Vince l’idea che si possa fare da soli e l’illusione di essere comunque e sempre vincenti. E in un paese che nei prossimi 30 anni si candida ad avere una popolazione di 40 milioni di abitanti, dieci in meno, non è ottimismo: è irresponsabilità. Facciamola pure l’analisi di questo deludentissimo voto referendario, ma attenzione a perdere di vista i punti di regressione del paese.

Tutti sono chiamati a riflettere su questi punti, perché riguardano l’insieme del paese e delle sue prospettive ormai nel breve termine. E sarà necessario ragionare sulla composizione sociale del paese, certamente, ma anche sulla disponibilità a riformarlo.

L’art. 18 dello Statuto è stato riformato, dal Governo Renzi, in una Italia che aveva subìto, qualche anno prima, gli effetti della bolla speculativa Usa del mercato immobiliare.

La classica risposta, sbagliata, di chi pensa che per riportare le cose a posto bisogna “strigliare” le persone e svalorizzare il lavoro. Decisione talmente sbagliata che produsse l’indebolimento progressivo del Governo Renzi e di Renzi stesso.

Ma questa è storia passata. Andiamo sempre più verso una sorta di “ibridizzazione” del lavoro, che nel tempo non sarà né solo dipendente né solo autonomo.

Forme le più diverse di rapporti di lavoro avranno sempre più fattori in comune, come il tempo di lavoro, le flessibilità organizzative ed anche gli spazi di vita personali.

Il rapporto di lavoro sarà regolato dai contratti, certo, ma necessariamente, per includere tutte le tipologie subordinate ed autonome del lavoro, sarà necessario inserire forme di contrattazione individuale.

A Nord il lavoro c’è ed è tutelato dall’esigenza dell’impresa di corrispondere alle esigenze del mercato. Al Sud è un’altra storia ma, se consideriamo l’ormai scandaloso fenomeno dell’emigrazione, i giovani formati vanno a competere in altri luoghi, del paese e del mondo.

Il Sud rischia di appesantire la propria marginalità. Insomma, aspetti valoriali alti ormai poggiano su gambe sempre più fragili. Ma il lavoro povero c’è ed è largo, l’esigenza di tutelare coloro i quali rischiano di essere svantaggiati, c’è pure. O la rabbia o la tutela dei diritti. Non possono essere oggetto di referendum perché troppo complessi, lo abbiamo appena visto, ma i problemi non muoiono, restano lì a dire che occuparsi dei più deboli e dei meno tutelati non è andare in direzione opposta a quella della storia: è, almeno sul piano dei valori, un obbligo ed un dovere.

Affidare in subappalto dei lavori responsabilizzando l’appaltatore sull’esecuzione, sulla qualità dei materiali e sul rispetto dei diritti è stata una norma giusta, varata come misura antimafia e della Commissione antimafia, e va ripristinata. Rompere il legame tra l’appaltatore e il subappaltatore significa solo aumentare il rischio sicurezza, la qualità delle opere, le retribuzioni e gli orari di lavoro.

L’impresa decentra ma proprio per questo motivo non può e non deve sottrarsi al controllo per fare rispettare capitolati e diritti. La battaglia, dunque, deve continuare. A cosa vale dirlo oggi, “the day after?” Probabilmente a ricordare che la battaglia per i diritti vale la pena combatterla sempre, perché forse è l’unica che ha senso ingaggiare.

Nelle prossime settimane, se non nei prossimi giorni, i referendum verranno archiviati ma i problemi no. I problemi restano in un paese continuamente sospeso tra progresso e conservazione. Tra una società complessa e un vecchio mondo che non c’è più. L’augurio, la speranza e forse la ragione ci dicono che è necessario e vitale riprendere il filo del ragionamento sul lavoro, sulle persone che lavorano e su quelli che vivono una condizione di sfruttamento, di caporalato, di sotto salario e di lavoro nero. E sono neri e bianchi.

Lavoratrici e lavoratori di colore nelle campagne meridionali e lavoratrici e lavoratori italiani ed europei sfruttati nelle aziende della logistica del Nord e nella grande distribuzione. Ho sempre pensato che la legislazione dovesse avere caratteristiche di sostegno alle relazioni industriali e sindacali. Provino, sindacati e Confindustria, a riappropriarsi della funzione che gli è propria e cerchino, in questa Italia sempre più piccola e sempre più marginale, a ridare centralità al lavoro ed all’impresa ed anche a dare una direzione a questo paese.

 di Emilio Miceli

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