I 100 anni di Nicola Scafidi
Nei suoi scatti la storia
vibrante della Sicilia

Società | 1 dicembre 2025
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Una mostra a palazzo dei Normanni, curata dalla figlia Angela, ricorda il centenario dalla nascita di Nicola Scafidi. Per tanti anni Scafidi ha restituito con i suoi scatti una vibrante memoria visiva. Ha raccontato le pagine più significative e quelle più contrastanti della storia della Sicilia, i drammi, la fierezza e la forza di un popolo protagonista di tante trasformazioni. Di Nicola Scafidi questo è il ritratto di Daniele Billitteri.  


Ogni volta che penso a Nicola Scafidi, perché magari mi sto chiedendo se è sua la foto che sto guardando, mi do quasi sempre una risposta immediata. E non è solo una questione di stile, di cultura dell’immagine. C’è in quelle foto una profondità quasi congenita al punto che pensi che una macchina fotografica, per quanto gioiello tecnologico, nelle sue mani prendeva vita e diventava un’amica, una complice, certe volte perfino un’amante. Sia che fosse la quotidiana Rolley a pozzetto con pellicola 6x6 da 100 ASA o 21 DIN, sia che fosse una titolata Nikon 35 millimetri. Era in mano sua che obiettivi, filtri, diaframmi, tempi di apertura diventavano come i cinque sensi di un essere umano: vedere, gustare, toccare, sentire, fiutare. E in ogni scatto c’era un senso, un discorso, un’appartenenza, un affetto, una condivisione che univa l’al di qua e l’al di là rispetto all’obiettivo.
Ho conosciuto Nicola all’inizio degli anni Settanta quando ero giovane cronista de L’Ora, indimenticabile nave scuola per tanti “sucanchiostro”. Il giornale si affidava all’agenzia Scafidi dove lavoravano i tre fratelli. Nicola era, diciamo così, l’Occhio. Agostino stava allo studio di via Stabile accanto al cinema Modernissimo e si occupava di sviluppo e stampa. Franco era il più giovane. Poi c’erano “i ragazzi” Pietro Lo Bianco e Gigi Petyx. Senza nulla togliere alle eccellenze che a metà di quel decennio avrebbero sostituito gli Scafidi a L’Ora, per noi ragazzini quasi con i calzoni corti quella gente era una leggenda e se la nostra formazione ha messo insieme qualche merito è anche a loro che si deve perché quando uscivamo per un servizio loro erano per noi l’altra metà del cielo, il parafulmine che l’esperienza li aveva fatti diventare.
Nicola aveva la flessibilità dell’artista. L’artigiano eccelle ma fa sempre la stessa cosa. Nicola faceva tutto e lo faceva da artista. Ho guardato le foto delle pop star di Palermo Pop 70 accanto a quelle delle madri salmodianti sul cadavere del figlio ammazzato. Ho visto bambini col grembiulino e il fiocco delle elementari e bambini coi calzoncini, una bretella i piedi nudi e le magliette a strisce che furono la divisa dei moti dell’8 luglio 1960. Ho visto i treni carichi di emigranti partire dalla stazione centrale per scoprire che esistevano davvero le valigie di cartone attaccate con lo spago e le bisacce col caciocavallo, uova dure, un forma di pane e una bottiglia di vino. E imparai presto come fare per non perdermi dettagli: bastava guardare dove stava puntando l’obiettivo Nicola.
In ogni scatto ci metteva del suo. Te ne accorgevi accanto a suo fratello Agostino quando questi metteva il negativo nell’ingranditore per stampare. C’era tutto un gioco di mani che creava ombre sapienti per dare vita alla foto e allora ti accorgevi com’era fatto l’occhio di Nicola, quanta arte c’era nel cogliere il contesto, nel carpire uno sguardo, un’espressione, un sorriso, una minna mostrata per errore o un lampo di dolore di chi sta litigando con Dio. Come dicono i Pooh.
Nicola cantava. Andate e ritorni da un servizio erano un festival. Sapeva tutte le canzoni della mala. “Passeggiando di un ponticello, di vicino di casa maia, nel caffè di santa lucia una battuiglia mi fermò…”. Oppure: “Hanno a passari sti vintinov’anni, unnici misi e 29 iorna. Cu rici ca lu carciru è galera? A mia mi pari na villegiatura”. Era un cantastorie senza cartello e senza chitarra. Io avrei dovuto già pensare a quale sarebbe stato l’attacco del mio articolo ma quel canto faceva di me un piccolo Ulisse attaccato al sedile della Mini Minor, incapace di non farmi distrarre da quella sirena.
Quanti giorni, quante storie. Poi ho pensato a questo legame tra Nicola e la sua macchina fotografiate a quanto, a quel tempo, sia stata davvero un’unione civile che ha dato voce e vista a una città spesso ammutolita e miope, un film da vedere un fotogramma alla volta. In quel film ci sono anche io perché, con tutto quello che Nicola mi ha mostrato e spiegato, ho capito che stava scattando i fotogrammi di un bel pezzo della mia vita. Grazie Nicola.
 di Daniele Billitteri

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