I salari devono ricominciare a crescere, lo dice Mario Draghi

Economia | 2 ottobre 2017
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Mentre il giovane e coltissimo candidato premier Luigi Di Maio si appresta ad indossare l'orbace, studiosi e sindacalisti si confrontano su temi decisivi per il mondo del lavoro italiano sul quotidiano on line “Il diario del lavoro” diretto da Massimo Mascini. L'interessante dibattito sulla riforma delle politiche salariali prende lo spunto dalle recenti dichiarazioni del governatore della BCE Mario Draghi sulla bassa crescita dei salari in Europa: essi sono ben al di sotto della media storica con effetti negativi sulla crescita dell'inflazione indispensabile a consolidare la debole ripresa in corso. Dati confermati da prestigiose ricerche: l'indagine sui redditi da lavoro della Banca d'Italia afferma che la quota del valore aggiunto che va al lavoro è scesa in Italia dalla metà degli anni '70 dello scorso secolo fino al 2000 dal 62% al 53% ; è poi risalita di un punto per la riduzione del valore aggiunto dal 2006 al 2008 ma è tornata a calare fino ad oggi e tendenzialmente continuerà a abbassarsi fino al 2020 (Sanna 2017). Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali, dal 1980 i salari nelle economie occidentali sono sempre cresciuti meno della produttività. Si ripropone insomma oggi la questione salariale come scommessa fondamentale per consentire al sindacato di interpretare e rappresentare i cambiamenti del lavoro. E' opinione diffusa che una delle principali cause della bassa crescita italiana dipenda dalla stagnazione dei salari reali che è conseguenza anche della polverizzazione del sistema produttivo italiano. Leonello Tronti ha messo in rilievo come su 4,4 milioni di imprese esistenti in Italia ben 4 milioni sono micro-imprese. In realtà, come ricorda Walter Cerfeda- a lungo dirigente di vertice della Cgil e già segretario della Confederazione Europea dei sindacati – Draghi ha sollevato due problemi: la precarizzazione del mercato del lavoro che vede in Europa il 30% delle lavoratrici e dei lavoratori occupati in lavori intermittenti o occasionali; la rottura del rapporto tra salari e fisco dal momento che l'unica parte fiscalmente incentivata del salario è quella relativa agli incrementi di produttività (riguarda nella media europea solo il 12% ma in Italia attorno al 20%). Il governatore propone la fiscalizzazione del cuneo fiscale e degli aumenti salariali dei rinnovi contrattuali nazionali negli 11 paesi dell'Unione in cui è presente il livello nazionale di contrattazione collettiva. In Italia la fiscalizzazione del cuneo fiscale per 15 milioni di lavoratori dipendenti costerebbe circa mezzo punto del PIL. Le risorse verrebbero reperite attraverso un cambiamento delle politiche di imposizione fiscale, tassando di più i beni e le proprietà invece che le persone fisiche. A partire da queste considerazioni, i docenti universitari Giuseppe Bianchi, Sebastiano Fadda e Leonello Tronti hanno elaborato il documento “Per una ripresa di politiche salariali espansive” che individua due punti di riflessione: il primo riguarda “il ruolo delle rappresentanze delle imprese e del lavoro, la cui capacità di ricondurre gli interessi individuali all'interno di una solidarietà collettiva può abbattere i cosiddetti costi di transazione”. Il secondo , strettamente connesso al primo attiene “all'approfondimento dei processi , dei temi e delle soluzioni chiamati in causa dalla proposta di legare i salari alla produttività programmata ed allo sviluppo della domanda dei beni di consumo”. Gaetano Sateriale, responsabile del Piano del lavoro della Cgil, è intervenuto nel dibattito sostenendo che il sindacato deve accogliere la sfida di legare il salario alla produttività, ciò che richiederebbe un forte sviluppo della contrattazione aziendale. Quest'ultima tuttavia nel nostro paese si fa solo nel 12% del totale delle imprese e nel 17,9% dell'industria e coinvolge appena tre milioni di dipendenti, un quinto del mondo del lavoro italiano. Questa situazione esclude dalla contrattazione di secondo livello le imprese minori e la gran parte del Mezzogiorno. Bisogna perciò puntare a mantenere e qualificare il ruolo del contratto collettivo nazionale e contemporaneamente dare impulso alla contrattazione territoriale di settore o d'area. Sostanzialmente sulla stessa linea il responsabile del Dipartimento economico della Cgil Riccardo Sanna che mette l'accento sulla necessità di sostenere la domanda con adeguati investimenti anche pubblici per ridare tono al complesso dell'economia italiana. Per la Cisl, il leader dei metalmeccanici Marco Bentivogli che condivide l'idea che la sfida per una nuova politica sindacale passa attraverso la contrattazione territoriale, necessaria per una categoria in cui la contrattazione aziendale coinvolge solo il 37% delle aziende. Ciò in conseguenza anche della struttura dell'industria italiana dove il 980% dei dipendenti lavorano in imprese al disotto dei 20 dipendenti: l'esatto contrario di quanto avviene in Francia e Germania a dimostrazione della parabola disastrosa del capitalismo familiare italiano. Il leader della Fim non pare aver in mente un modello generale di riforma del sistema contrattuale, ma piuttosto immaginare una contrattazione “sartoriale”, capace cioè di adattarsi alla diversa situazione delle industrie. Confindustria fa orecchie da mercante, contrapponendo alle proposte sindacali l'indicazione di un “patto per la fabbrica” che rappresenterebbe la continuità con le politiche incentivanti che non hanno dato buona prova di sé negli anni più recenti. Insomma, ferma la comune esigenza di avviare un stagione di solide rivendicazioni salariali per risalire la china di una condizione retributiva che vede l'Italia molto indietro rispetto ai principali partners, le concrete soluzioni avvistate all'interno del mondo sindacale sono ancora tra loro distanti, mentre gli industriali continuano a investire poco e male nonostante i circa 16 miliardi di incentivi di cui hanno goduto nell'ultimo triennio, Una sola osservazione: da vecchio sindacalista meridionale (in quiescenza, ma vale il detto semel sacerdos semper sacerdos) sono molto interessato alla valorizzazione della contrattazione territoriale di settore e d'area che appare la più adatta ad affrontare i problemi di un apparato produttivo fatto di aziende piccole e piccolissime geograficamente concentrate in alcune aree. D'altro canto , la contrattazione territoriale nel Sud ha radici profonde, specialmente in edilizia e nel lavoro agricolo. Una riflessione in proposito del gruppo dirigente del sindacato siciliano sarebbe utile a far pesare il punto di vista meridionale in quello che sarà un dibattito decisivo per la rappresentatività del movimento sindacale italiano e per il rafforzamento del suo ruolo di autorità salariale. FRANCO GARUFI


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