Il Veneto, la Lombardia, la Catalogna e la voglia di autonomia dei ricchi
Sul terreno istituzionale, il referendum ha radici negli errori della riforma costituzionale del 2001 e negli equivoci nella formulazione del Titolo V. Il nodo principale però riguarda la distribuzione delle risorse finanziarie tra regioni e Stato. Si chiede che il 90% delle imposte derivanti da attività economiche nel territorio restino in quell'ambito e vengano utilizzate in base alle decisioni dei governi locali. Insomma, le regioni ricche del paese vogliono spendere i propri denari senza il fastidio della solidarietà verso le aree più deboli, con la conseguenza di dar vita a servizi sociali e diritti differenziati e modulati sulla base del reddito pro-capite e ampliando ancora di più la distanza tra Nord e Sud del paese. In realtà è l'idea di un'Italia solidale che viene messa in discussione dal voto di ieri che, per il resto, non avrà nell'imediato conseguenze pratiche. Nell'attuale quadro istituzionale, è probabile che si aprirà un confronto- che l'Emilia ha del resto ottenuto senza ricorrere al referendum- con le regioni a statuto ordinario per ridefinire alcuni rapporti finanziari a fronte del trasferimento di funzioni aritualmente gestite da amministrazioni statali.
Resta il guazzabuglio della "legislazione concorrente" che ha rappresentato il frutto avvelenato della riforma di inizio secolo. Però la valenza politica sarà senza dubbio rilevante, in specie all'antevigilia di delicatissime elezioni nazionali. Non siamo, per nostra fortuna, al dramma della democrazia spagnola che si sta consumando tra Madrid e Barcellona, ma un collegamento tra la situazione catalana e i referendum di ieri esiste. É l'idea che i più ricchi hanno convenienza a star da soli, a non caricarsi la zavorra delle aree più arretrate. É questo il vero rischio che corre l'Italia oggi, non quello della secessione che è solo un orpello ideologico per tenere buoni i frequentatori del raduno di Pontida. Il regionalismo italiano, forse la più grande intuizione istituzionale contenuta nella Costituzione, sta mostrando tutte le debolezze derivanti dalle mancate scelte degli ultimi vent'anni. Dal 15 maggio del 1946, data di approvazione dello statuto della regione siciliana a quel 1970 in cui presero avvio le regioni a statuto ordinario, le condizioni poltiche, economiche sociali del paese erano profondamente cambiate e l'autonomia speciale siciliana stava ormai concludendo la sua fase migliore. Non è questa la sede per chiedersi se abbia ancora senso la distinzione tra autonomia speciale ed autonomia ordinaria, tuttavia colpisce che nella campagna elettorale per le regionali sembri del tutto scomparso il tema dell'Autonomia che resta -con tutti i suoi drammatici limiti- il prodotto più alto del pensiero politico siciliano. Il discorso non può essere ridotto a poche righe, ma il rischio reale è che si apra la rincorsa tra le regioni a sottrarre risorse allo stato centrale.
Con il risultato di far definitivamente sparire dall'orizzonte politico italiano il tema di come affrontare quel divario di sviluppo tra i territori che é ancor oggi il dato caratteristico della situazione italiana, come la parte migliore della cultura meridionalista - da Giustino Fortunato a Gaetano Salvemini, ad Antonio Gramsci -ci ha insegnato e la svimez non si stanca mai di ricordarci. Franco Garufi
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