Ivanov, alter ego di Cechov

La lunga notte di questa eclissi dell’occidente, vissuta sulla pelle (nell’anima) di persone, collettività, specifici gruppi sociali -privi di rete di protezione, di welfare, di clientelari invasature- è nitidamente riprodotta dalle prime espressioni teatrali rintracciabili qui a Roma, o in successive soste nazionali. All’Eliseo, ad esempio, si rappresenta (per la regia dell’ottimo Filippo Dini) la prima, la più ‘sintomatica’ delle opere di Anton Cechov(scritta nel 1887 a 27 anni, morì a 44), titolata al nome del suo sfinito, confusionario anti-eroe- Ivanov – in cui già si prefigurano tutte le esauste maschere della ‘pena’, della ‘fatuo\assurdità’ del vivere (senza vivere), di cui la letteratura, il teatro, la cultura del novecento sapranno fare essenza e percolato attraverso gli itinerari umani e creativi di Musil, Svevo, Pirandello, Joyce, Benco.
Bizzarro. ma pertinente alla poetica dell’autore, è il progetto di regia, mirante a “raccontare la noia”, nelle sue smidollate, numerose sfaccettature, sino a che essa non precipiti in tragedia. E intrecciando, a tal fine, uno spettacolo di smagliante, composita espressività, ove ad un estroso, ingegnoso pauperismo scenografico (con cambiamenti a vista), su di un tappeto musicale evocante, in sordina, motivetti da bella epoque scorre l’ultimo anno di vita dell’Ivanov, uomo e perdigiorno, ambizioso e inconcludente, velleitario e infingardo. Costretto a fare i conti con la propria inadeguatezza verso il mondo e l’intervenuta disperazione, sotto forma di abulia, di accidia, verso ogni idea di futuro, di dignitosa ‘sopravvivenza’ al vuoto esistenziale procuratogli da una sfilza di errori, miserie, disavventure sentimentali (le, quali, e per inciso, semineranno vittime innocenti, prima fra trutte la moglie Anna Petrovna, platealmente tradita e poi morta di tisi, con lieve foga melodrammatica).
Chi è dunque il demone contro cui Ivanov lotta invano, sino a ‘debellare’ l’esistenza di due donne che lo amano, oltre a quel po’ che resta del suo avito patrimonio terriero? . Come dicevamo, è tarlo della ‘noia’, dell’incapacità di gestire il quotidiano, senza per questo atteggiarsi a vittima, dandy, genio incompreso; semmai dispiegando un’emotività ed un’energia dirompenti come fuochi fatui. A Cechov, ovviamente, che non giudica mai nulla e nessuno, non interessa la scaturigine (la causa) di simile inerzia o blocco esistenziale, cosparso di buoni propositi e minimalismi contraddittori, auto-lesivi. Uomo superfluo e ben più nocivo del suo progenitore “Oblomov” (romanzo del 1859), paladino dell’inerzia più che del dubbio metodico, Ivanov ‘rappresenta’ se stesso, e la sua ‘mancanza di qualità’, senza dover spiegare a nessuno il donde e il dove del suo quotidiano flagello.
Che, va da sé, in questo avvicente spettacolo in cui naturalismo e pochade, tragedia e vaudeville convivono armoniosamente, guadagna valenze allegoriche, metaforiche, psicosomatiche (la corpulenza del personaggio) rispetto alla ‘perdita di baricentro’ cui ci espone (con dolore o cupio dissolvi) ogni ‘finale di partita’ -e di epoca- incapace (come accadde nella Russia del tardo zarismo) di intravedere elementi di progettualità, di alternative civili e di ‘trainamento’ umano alle cicliche decadenze che la Storia assegna –in senso circolare, sosteneva Vico- ad ogni scadenza d’epoca.
Da cui ripartire come in un ‘viaggio per Citera’: boscaglia, lungo-fiume o mareggiata odisseica che affaticheranno missione e andatura di chi sopravvive come nei “cuori di tenebra” di Conrad e Coppola. Esploratori di un ‘rinascimento alla fecondità dell’esistere’, da cui alcuni di noi saranno purtroppo estromessi. Non per inettitudine, ma per aver troppo osato, prima o in ritardo. E poi il dubbio: cosa mai ‘osò’ Ivanov ‘per ridursi così’?. A fine spettacolo ne sapremo meno di prima, ma del benevolo mistero rendiamo grazie a questo inatteso incontro, ilare e patibolare, con il medico\drammaturgo: egli stesso svogliato, discontinuo, impareggiabile nella vita, più della sua inerme creatura di cui conviene custodire memoria. Quanti consanguinei ha oggi Ivanov? Vanno bene, fra i tanti, "L'uomo in bilico" di Bellow, Portnoy di Philip Roth, "L'uomo che non c'era" dei Coen...?
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“Ivanon”di Anton Pavlovič Čechov versione italiana Danilo Macrì
Regia di Filippo Dini
Interpreti: Filippo Dini, Sara Bertelà, Nicola Pannelli, Gianluca Gobbi, Orietta Notari, Valeria Angelozzi, Ivan Zerbinati, Ilaria Falini, Fulvio Pepe.
Scene: Laura Benzi Musica: Arturo Annecchino
Luci Pasquale Mari
Prod.Teatro Stabile di Genova Fondazione, Teatro Due Roma- Di scena a Roma, Teatro Eliseo
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