Le ombre che avvolgono
il delitto Dalla Chiesa
Società | 2 settembre 2025

Ci sono tanti lati oscuri nel tratto conclusivo della storia di Carlo Alberto Dalla Chiesa. In modo netto lo segnalano i giudici nella sentenza che ha condannato all’ergastolo con la cupola di Cosa nostra Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo e Nino Madonia. «Si può, senz’altro, convenire – scrivono – con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale».
C’è insomma uno spettro ampio di responsabilità che non si ferma alla sfera militare della strage di 43 anni fa. E questo era chiaro allo stesso Dalla Chiesa quando, a pochi giorni dalla sua uccisione, nell’ultima intervista a Giorgio Bocca aveva detto che un uomo delle istituzioni viene colpito quando «è diventato troppo pericoloso, ma si può uccidere perché è isolato». In queste parole si ritrova una riflessione amara, e purtroppo fondata, della sua condizione: assediato dalla mafia, circondato da ostilità diffuse, ostacolato dai Palazzi, lasciato senza i poteri che aveva reclamato quando era stato mandato a Palermo dopo i successi contro il terrorismo.
Dalla Chiesa aveva speso il suo impegno sue due fronti: a quello della mafia, cominciato a Corleone come giovane ufficiale dei carabinieri e proseguito a Palermo, si aggiungeva una sfida al terrorismo. Con l’una e con l’altro aveva adottato, come ha osservato Vittorio Coco nel suo libro sul superprefetto ("Il generale Dalla Chiesa, il terrorismo, la mafia"), la linea di un innovatore. All’organizzazione da colpire oppose la capacità di sviluppare una risposta basata su conoscenze specifiche raccolte da gruppi investigativi specializzati.
Nel segno dell’innovazione metodi e strategie del generale spinsero la magistratura a ricavare spunti di emulazione con la costituzione di gruppi specializzati come i pool. Le innovazioni furono poi accompagnate da una normativa premiale che aprì la strada al pentitismo. Un fenomeno che si sviluppò con effetti devastanti sia nella rete terroristica sia nella organizzazione di Cosa nostra.
Nel momento in cui Dalla Chiesa assunse l’incarico di superprefetto era stato chiaro con il governo: tornava in Sicilia con l’obiettivo di indagare anche sulla «famiglia politica più inquinata dell’isola», con un riferimento al gruppo andreottiano siciliano. Il suo progetto era quello di colpire la struttura militare di Cosa nostra e di spezzare il sistema di collusioni tra mafia e politica.
Ma la sua richiesta di poteri di coordinamento, che avrebbero dovuto dare un senso e una spinta alla sua missione siciliana, rimase una voce clamante. Non c’era la volontà politica di mettere Dalla Chiesa nelle condizioni operative migliori per reggere la sfida. Di fronte alle inerzie e alle ostilità della politica la mafia mostrava invece di avere una chiara prospettiva strategica. «Quando ho sentito alla televisione che era stato promosso prefetto per distruggere la mafia ho detto: prepariamoci, mettiamo tutti i ferramenti a posto, tutte le cose pronte per dargli il benvenuto: qua gli facciamo il culo a cappello di prete», raccontava Totò Riina al capomafia pugliese Alberto Lorusso in una conversazione intercettata in carcere.
A sparare era stato un gruppo di fuoco di Cosa nostra ma c'era una «causale non direttamente ascrivibile alla mafia». E di questo era convinto Pietro Grasso quando, da procuratore nazionale antimafia, si chiedeva se si potesse affermare che «tutta la verità sia stata accertata, che tutte le responsabilità siano state scoperte».
No, non tutta la verità è stata accertata, come con amarezza e sgomento scrisse una mano anonima nel luogo dell’attentato: «Qui è morta la speranza dei palermitani onesti».
In quei cento giorni, cominciati con l’insediamento nel giorno in cui erano stati uccisi Pio La Torre e Rosario Di Salvo, Dalla Chiesa aveva ricevuto segnali terrificanti. Il 16 giugno sulla circonvallazione di Palermo era stati uccisi il boss Alfio Ferlito, l’autista del furgone che lo stava trasferendo da un carcere all’altro, tre carabinieri della scorta. Un mese dopo tra Bagheria e Altavilla Milicia la catena di sangue nel “triangolo della morte” era culminata con un duplice omicidio: i cadaveri erano stati caricati su un’auto lasciata davanti a una caserma dei carabinieri. Era l’ultimo atto della sfida. «L’operazione Dalla Chiesa è conclusa» era il messaggio mandato al giornale L’Ora. No, non era ancora conclusa ma sarebbe presto arrivata sullo sfondo di trame oscure da 43 anni sempre più dense di cui Coco cerca di ricomporre il filo strategico rivisitando il sospetto che si decise di mandarlo a Palermo senza poteri “per liberarsi di lui e dei segreti di cui era in possesso”.
Ultimi articoli
Di taser si può anche morire
Teatro Grifeo di Petralia, una storia lunga 163 anni
Raia, primo delitto
politico-mafioso
del dopoguerraCosta, storia e morte
di un procuratore «rosso»Giustizia riformata, Costituzione demolita
Il racconto di Brusca sugli orrori
Femminicidi, la svolta e le nuove tutele
Rocco Chinnici, il padre
del pool antimafiaIl fenomeno Trump, l’immagine al potere
Cosa nostra e il ritorno
della zona grigia