L'Italia del Censis va sempre più indietro

Società | 11 dicembre 2025
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Il 30 per cento degli italiani è convinto che le autocrazie siano “più adatte allo spirito dei tempi”. Il 5 dicembre è stato divulgato il 59° rapporto Censis. Anche quest’anno centinaia di percentuali, tendenze, analisi. Come in passato, ci soffermeremo sul sempre interessante “quadro” Censis, al pari del “linguaggio” Censis. Ma è sul dato iniziale che torneremo. Perché tra tanti rischi elencati nel rapporto – politici, sociali, economici – quella percentuale apparentemente marginale è uno dei segnali più pericolosi.
“L’Italia nell’età selvaggia”. Il rapporto offre una analisi approfondita dei processi socio-economici nel paese: “Nel mondo a soqquadro non è l’economia il vero motore della storia. Lo sono le pulsioni antropologiche profonde: antichi miti e nuove mitologie, paure ancestrali e tensioni messianiche, veementi fedi religiose e risorgenti fanatismi ideologici, culture identitarie radicali, desideri di riconoscimento inappagati, suggestioni della volontà di potenza. Molti fenomeni del nostro tempo, che sfuggono alla pura razionalità economica, come le guerre, i nazionalismi, il protezionismo, non si spiegherebbero altrimenti. Il vitalismo irrazionale soppianta la fiducia ragionevole in un illuminato progressismo liberal. Ci siamo inoltrati in un’età selvaggia, del ferro e del fuoco, di predatori e di prede. E il grande gioco politico cambia le sue regole, privilegiando ora la sfida, ora la prevaricazione illimitata. Perciò il 62% degli italiani ritiene che l’Unione europea non abbia un ruolo decisivo nelle partite globali. Il 53% crede che sia destinata alla marginalità in un mondo in cui vincono la forza e l’aggressività, anziché il diritto e l’autorità degli organismi internazionali. Per il 74% l’american way of life non è più un modello socio-culturale, un tempo da imitare e oggi irriconoscibile. Moriremo post-americani? Il 55% è convinto che la spinta del progresso in Occidente si sia esaurita e adesso appartenga a Cina e India. Il 39% ritiene che le controversie tra le grandi potenze si risolvano ormai mediante conflitti armati, i cui esiti fisseranno i confini del nuovo ordine mondiale. E il 30% condivide una convinzione inaudita: le autocrazie sono più adatte allo spirito dei tempi”.

Il “Grande Debito” che minaccia il welfare

Un’altra immagine evocativa domina le pagine su economia e finanza: il Grande Debito. “L’aumento vertiginoso dell’indebitamento delle economie occidentali le rende fatalmente più fragili. Tra il 2001 e il 2024 nei Paesi del G7, a fronte di una stentata crescita dell’economia, il debito pubblico è lievitato dal 75,1% al 124,0% del Pil. In Italia dal 108,5% al 134,9%, Francia dal 59,3% al 113,1%, Regno Unito dal 35,0% al 101,2%, Stati Uniti dal 53,5% al 122,3%. Non siamo più l’unico malato d’Europa. Nel 2030 il rapporto debito pubblico/Pil nei Paesi G7 supererà il 137%, tornando prossimo al livello raggiunto nel 2020 causa pandemia, quando sfiorò il 140%. Uno shock per le finanze pubbliche analogo a quello vissuto durante l’emergenza sanitaria, ma il debito record sarà maturato in condizioni ordinarie, in assenza di una pandemia. Il Grande Debito determina una mutazione dello Stato: da Stato fiscale a Stato debitore. Gli Stati debitori non potranno abbassare le tasse, obiettivo sempre promesso dagli Stati fiscali e puntualmente disatteso. Ingente debito e bassa crescita, legata all’invecchiamento e alla riduzione della popolazione attiva, congiurano per un ridimensionamento del welfare (fenomeno storico, non imperituro: può nascere e svilupparsi, ma anche estinguersi). Gli interessi pesano come zavorre sui conti pubblici e restringono gli spazi di manovra su investimenti produttivi e stimoli alla crescita. A settembre il debito pubblico italiano ha toccato il record di 3.081 miliardi (+38,2% rispetto a settembre 2001). Nell’ultimo anno spesa per interessi a 85,6 miliardi, corrispondenti al 3,9% del Pil: il valore più alto tra tutti i Paesi Ue (ad eccezione dell’Ungheria: 4,9%), anche più della Grecia (3,5%) e molto al di sopra della media europea (1,9%). Gli interessi pagati superano non solo la spesa per i servizi ospedalieri (54,1 miliardi), ma l’intero valore degli investimenti pubblici (78,3 miliardi) e ammontano a più di dieci volte quanto l’Italia spende in un anno per la protezione dell’ambiente (7,8 miliardi). Una vulnerabilità accresciuta dal fatto che i titoli del debito pubblico italiano sono in mano prevalentemente a creditori residenti all’estero: il 33,7% del totale (più di 1.000 miliardi) a fronte del 14,4% detenuto dalle famiglie e del 19,2% dalla Banca d’Italia. Il Grande Debito inaugura il secolo delle società post-welfare. Ma senza welfare le società diventano incubatori di aggressività e senza pace sociale le democrazie vacillano. Per l’81% degli italiani è ora di punire i giganti del web che sfuggono alla tassazione”.

La deriva demografica

Molte analisi sono dedicate a quella che viene definita “La febbre del ceto medio”: “(…) La regressione demografica, con il progressivo invecchiamento della popolazione e i tassi di natalità in caduta libera, provoca l’arresto dei processi di proliferazione delle piccole imprese. In vent’anni (2004-2024) il numero dei titolari d’impresa si è assottigliato da 3,4 milioni a 2,8 milioni: -17,0%. I giovani imprenditori con meno di 30 anni sono diminuiti nello stesso periodo del 46,2% (quasi 132.000 in meno). E se il reddito delle piccole imprese (fino a 5 addetti) corrispondeva al 17,8% del Pil nel 2004, nel 2024 si è ridotto al 14,0%”.
Nel capitolo “I barbari alle porte e la menzogna politica” la visione che gli italiani hanno del mondo, dei leader politici, della geopolitica. “Secondo il 72% la gente non crede più ai partiti, ai leader politici e al Parlamento. Il 63% è convinto che si sia spento ogni sogno collettivo in cui riconoscersi. L’unico leader con una proiezione globale che ottiene la fiducia della maggioranza degli italiani (60,7%) è Leone XIV. Seguono Sánchez (44,9%), Merz (33,5%), von der Leyen (32,8%), Macron (30,9%), Starmer (29,0%), Lula (23,0%), Trump (16,3%), Modi (14,9%), Xi Jinping (13,9%), Putin (12,8%), Orbán (12,4%), Erdoğan (11,0%), Netanyahu (7,3%), Khamenei (7,3%), Kim Jong-un (6,1%). Assistiamo a un capovolgimento dei ruoli nel rapporto tra élite e popolo. Da una parte i leader europei – il nostro nuovo pantheon politico – con i volti sgomenti come pugili suonati, sotto i colpi sferrati da est e da ovest. Invece di rassicurare, esercitando la tradizionale funzione dell’offerta politica, eventualmente con il ricorso spregiudicato alla menzogna, annunciano la catastrofe, ci mettono davanti al pericolo di morte: la guerra imminente, la irrimediabile perdita di competitività del continente, l’ineluttabile deriva demografica, la marea inarginabile dei migranti, il collasso climatico. Dall’altra gli italiani, per i quali non è scattato l’allarme rosso: l’apocalisse può attendere. Non si segnalano tentazioni di radicalizzazione: per il 47% le divisioni politiche e la violenza che scuotono gli Stati Uniti sono impensabili nella nostra società. E un intervento militare italiano, anche nel caso in cui un Paese Nato alleato venisse attaccato, è disapprovato dal 43%. Il 66% ritiene che, se per riarmarsi l’Italia fosse obbligata a tagliare la spesa sociale, dovremmo rinunciare a rafforzare la difesa”.
Altra definizione evocativa da prima-della-catastrofe: il capitolo dedicato a “Il Grand Hotel Abisso” e al piacere: “Gli italiani non sono tipi da prendere alloggio nelle stanze del “Grand Hotel Abisso”, dove sperperare gli ultimi averi prima che scocchi la mezzanotte, sporgendosi deliziati e inconsapevoli, con le bende agli occhi, sull’orlo del baratro, mentre ci si allieta con piaceri sfrenati e pasti goduti negli agi, finché non sopraggiungano le tenebre. Certamente no, visto che sono impegnati a districarsi con sagacia e misura tra piccole cicatrici e grandi minacce (…)”.
Dalla psicologia sociale e dalle pulsioni sessuali torniamo ai temi economici. A cominciare dal “lungo autunno industriale (e l’antidoto del riarmo)”. “L’indice della produzione industriale è stato negativo per trentadue mesi consecutivi con l’eccezione di tre timidi rimbalzi. La produzione manifatturiera è arretrata nel 2023 (-1,6%), 2024 (-4,3%) e nei primi nove mesi di quest’anno (-1,2%). Il lungo autunno industriale scivolerà nel gelido inverno della deindustrializzazione? Tra i comparti in sofferenza nel 2024 solo l’alimentare ha registrato un incremento della produzione: +1,9%. Tessile e abbigliamento calato dell’11,8%, mezzi di trasporto del 10,6%, meccanica del 6,4%, metallurgia del 4,7%, farmaceutica dell’1,7%. Solo elettronica, alimentare, farmaceutica, legno e carta mostrano segnali di recupero. Contestualmente, nei primi nove mesi dell’anno la fabbricazione di armi e munizioni registra un incremento del 31,0% rispetto all’anno scorso”.

Si spende di più, si consuma di meno

Inevitabile la “divaricazione tra spesa e consumo”. “L’inflazione ha condizionato i comportamenti di consumo delle famiglie. Nel 2024 i prezzi erano più alti del 17,4% rispetto al 2019 e il carrello della spesa più caro del 23,0%. Si è speso di più ma consumato di meno. Nei cinque anni il costo dei generi alimentari è aumentato del 22,2% il volume acquistato si è ridotto del 2,7%. Forbice ampia anche per vestiario e calzature: +4,9% in valore e -3,5% in volume. Servizi assicurativi e finanziari aumentati del 47,3% in termini nominali, ma utilizzo ridotto del 2,0%. I soli servizi finanziari (3,2% della spesa delle famiglie, ovvero 40 miliardi) hanno registrato un aumento del prezzo del 106,2% nel 2019-2024”.
Non riusciamo a venire fuori della senilizzazione del mercato del lavoro: “(…) L’incremento di 833.000 occupati nel biennio 2023-2024 è dovuto prevalentemente a persone con 50 anni e oltre: +704.000 (l’84,5% di tutta la nuova occupazione). Il saldo positivo nei primi dieci mesi 2025 (206.000 occupati in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso) dipende dai più anziani; aumentano di 410.000 unità (+4,2%), a fronte di -96.000 occupati di 35-49 anni (-1,1%) e -109.000 con meno di 35 anni (-2,0%). Tra i giovani in aumento gli inattivi: +176.000 nei primi dieci mesi dell’anno (+3,0%). Nel 2023-2024 l’input di lavoro supera largamente la crescita dell’economia: +3,7% gli occupati, +5,3% le ore lavorate, solo +1,7% il Pil. Conseguentemente calano gli indicatori di produttività (…)”.
Altra socio-foto: gli immigrati. “Sono più di 5,4 milioni gli stranieri in Italia (il 9,2% della popolazione residente), la gran parte in condizioni di marginalità. Il 29,0% dei lavoratori stranieri (in totale 2.514.000, ovvero il 10,5% degli occupati) è a tempo determinato o part time involontario (tra gli italiani la quota corrispondente 17,2%). Il 29,4% svolge un lavoro non qualificato (l’8,0% tra gli italiani) e il 55,4% degli occupati stranieri laureati risulta sovraqualificato, possiede un titolo di studio troppo elevato per il lavoro svolto (18,7% tra gli italiani). Il 35,6% degli stranieri vive sotto la soglia della povertà assoluta (il 7,4% tra gli italiani). Guardiamo con favore gli stranieri quando svolgono lavori faticosi e poco qualificati o accudiscono anziani e bambini, ma non siamo propensi a concedere i diritti di cittadinanza degli autoctoni. Il 63% degli italiani pensa che i flussi in ingresso di immigrati vadano limitati, il 59% è convinto che un quartiere si degrada quando sono presenti tanti immigrati, il 54% percepisce gli stranieri come un pericolo per identità e cultura nazionali. Solo il 37% consentirebbe l’accesso ai concorsi pubblici a chi non possiede la cittadinanza e solo il 38% è favorevole a concedere agli stranieri il voto alle amministrative”.
Decresce la popolazione ma alcune città registrano un aumento dei residenti: “A fronte di una riduzione della popolazione residente in Italia del 2,3% nel decennio 2014-2024 (quasi 1,4 milioni), si ridisegna la geografia della vitalità sociale. La popolazione aumenta nelle città intermedie del Nord-Est e nei comuni limitrofi di alcune aree metropolitane. Nell’ultimo decennio i residenti sono aumentati a Parma (+4,9%), Prato (+3,8%), Latina (+3,7%), Mantova (+3,6%), Brescia (+3,5%). Due i driver che spingono in avanti: le opportunità di lavoro e la presenza di stranieri. Tra le aree metropolitane, 11 hanno visto ridursi abitanti tra il 2014 e il 2024 (da un minimo -1,6% di Firenze a un massimo -7,1% di Messina), Roma stabile (+0,2%), Milano (+1,9%) e Bologna (+1,9%) cresciute”.

La partecipazione politica rallentata

Ancora una definizione sociologica evocativa in stile Censis: l’offerta culturale diventa dispositivo esperienziale. “Nel 2024 la spesa per soggiorni culturali e nelle città d’arte di stranieri è aumentata del 7,1% rispetto al 2023, raggiungendo il 56,4% della spesa per vacanze sul territorio nazionale. Il fenomeno riguarda quasi 20 milioni di persone (+4,6% rispetto al 2023), pari al 55,9% dei 35 milioni di viaggiatori arrivati dall’estero. Nel primo semestre 2025 la spesa dei turisti stranieri in Italia segna un +13,5% rispetto allo stesso periodo 2024. Tuttavia negli ultimi vent’anni (2004-2024) la spesa per la cultura delle famiglie italiane si è drasticamente ridotta (-34,6%). Poco più di 12 miliardi nell’ultimo anno ovvero poco più di un terzo di quanto spendiamo per smartphone e computer (quasi 14,5 miliardi nel 2024: +723,3% negli ultimi vent’anni) e servizi di telefonia (17,5 miliardi). La riduzione dei consumi culturali dipende dalla forte contrazione della spesa per giornali (-48,3% in vent’anni) e libri (-24,6%). Ma gli altri consumi di beni (+14,2%) e servizi culturali (+28,9%) non sono diminuiti. Nell’ultimo anno il 45,5% degli italiani è andato al cinema, il 24,7% ha assistito a eventi musicali, il 22,0% a spettacoli teatrali, il 10,8% a concerti di musica classica e all’opera. Musei e mostre sono stati visitati dal 33,6% degli italiani, siti archeologici e monumenti dal 30,9%. L’offerta culturale diventa sempre più un dispositivo esperienziale”.
E la partecipazione politica? Roba dei tempi andati. Del resto la classe politica sembra mettercela tutta per scoraggiarla. “Manifestazioni e piazze virtuali: la partecipazione senza delega politica. Alle ultime elezioni politiche del 2022 gli astenuti hanno raggiunto il record del 36,1% degli aventi diritto, 9 punti in più rispetto al 2018. Alle europee del 2024 il 51,7% degli elettori ha disertato le urne (alle prime elezioni, nel 1979, astenuti il 14,3%). Nel 2003 il 57,1% degli italiani si informava regolarmente di politica, nel 2024 percentuale è scesa al 48,2%. I cittadini che ascoltano dibattiti politici erano allora il 21,1%, oggi il 10,8%. Partecipazione ai comizi dimezzata: dal 5,7% al 2,5% (dal 6,3% all’1,9% tra i giovani di 20-24 anni). Le mobilitazioni raccolgono sempre meno adesioni: nel 2003 il 6,8% degli italiani aveva partecipato a cortei, vent’anni dopo il 3,3%. Un’eccezione, dunque, le recenti proteste per il conflitto in Palestina”.

L’autocrazia che uccide la democrazia

Infine la rapida senilizzazione nel capitolo “Gli immortali”: “(…). Le persone dai 65 anni in su rappresentano il 24,7% (14,6 milioni): erano il 18,1% nel 2000 e il 9,3% nel 1960. Aspettativa di vita arrivata a 85,5 anni per le donne e 81,4 per gli uomini: circa 5 mesi in più solo nell’ultimo anno. E i centenari, 594 nel 1960, oggi sono 23.548. Nel 2045 le persone dai 65 anni in su raggiungeranno i 19 milioni (il 34,1% della popolazione). Il desiderio di prolungare l’esistenza sfuggendo alle malattie è la regola che accomuna la nuova generazione di anziani. Una tendenza a vivere come eterni adulti, senza limitazioni legate all’avanzare dell’età. Con la consapevolezza di custodire e trasmettere in eredità risorse, non solo materiali, di cui le giovani generazioni non potranno godere in ugual misura”.
Chiudiamo concentrandoci sulla “convinzione inaudita”. Non prima di cercare “autocrazia” sul vocabolario Treccani. Due significati. Il primo: Potere assoluto. Il secondo: “Nella scienza politica moderna, il sistema di governo dello stato cosiddetto assoluto, in cui il sovrano (o autocrate) trae l’origine e il fondamento della propria autorità da sé stesso o al più, come si riteneva una volta, dal fatto che gli è stata conferita dalla volontà divina”. Vogliamo certezze sul significato perché i casi sono due. O chi risponde che “le autocrazie sono più adatte allo spirito dei tempi” non conosce il significato della parola (possibile: l’ignoranza, unita alla presunzione di non essere ignoranti, cresce esponenzialmente nel tempo della “società sbrigativa” e dell’informazione friggi e mangia on line tutta debitrice al responso del totem smartphone) oppure si conferma un terribile – vichiano - “corso e ricorso storico”. Ovvero: solo pochissimi novantenni e centenari (se il cervello ancora …regge) conservano memoria del 1940-1945, dei bombardamenti aerei, dello sfollamento dalle città, dei massacri, dei rastrellamenti nazifascisti, delle rappresaglie, dell’angoscia quotidiana di sopravvivere in guerra e alla guerra. Tutti gli altri l’abominio bellico l’abbiamo visto comodamente seduti al cinema e davanti alla tv. Perciò se per un verso temiamo di riscivolarvi dentro per un altro verso consideriamo l’ipotesi lontana, contando di esorcizzarla. E dunque non capiamo che il percorso finale di ogni autocrazia - come di ogni forma di estremismo (religioso, ideologico, filosofico, teorizzante, scienza-politico) - sfocia immancabilmente in eventi traumatici, in conflitto (quasi sempre armato). La storia parla. Siamo noi a ostinarci a non ascoltarla. Mettere fine al totalitarismo autocratico dei tre bellicosi regimi nazifascisti di Italia, Germania, Giappone è costato 60 milioni di morti, due bombe atomiche, distruzioni che hanno richiesto decenni per essere rimarginate. Dal crollo del regime comunista sovietico è riemerso l’erede – fascista e autocratico – Putin, tanto ansioso (quanto militarmente minaccioso e maldestro) di ripristinare i trascorsi di potenza di quel passato. Certo, esistono le autocrazie che si sono estinte per consunzione. Comunque con conflitti, sebbene non particolarmente cruenti. Così per la dissoluzione della dittatura di Salazar e poi di Caetano nel Portogallo nel 1974, a cui mise fine una rivolta popolare dopo un golpe militare incruento dell’esercito (la cosiddetta “rivoluzione dei garofani”). Così per la fine del “franchismo” in Spagna, non senza episodi drammatici come il tentativo di rispristinare la dittatura con l’irruzione armata nel Parlamento da parte di uno scriteriato golpista, il colonnello Antonio Tejero, nel 1981. Ma sono eccezioni. La regola è che all’autocrazia, per la sua conservazione, sono connaturate la prevaricazione; la violenza; il potere assoluto pluridecennale quando non a vita del capo; la crescente compressione dei diritti civili; un atteggiamento “Dio, patria e famiglia” bellicista, aggressivo, con invasioni e scontri armati a danno dei paesi confinanti; l’eliminazione degli spazi di pensiero, di libertà, di critica, di stampa libera; l’eliminazione fisica degli avversari o nella migliore delle ipotesi l’incarcerazione per decenni; l’addomesticamento al potere politico del potere giudiziario.
Fenomeni se non tutti comunque in parte ben presenti negli Usa di Trump – l’America MAGA e della più sfrenata plutocrazia (governo dei ricchi) e oikocrazia (governo dei clan) – non più “faro” della democrazia, ridotti a modello di veloce progressione verso svolta autoritaria e autocrazia. Ben presenti nella Russia di Putin – autocratica, cleptocratica, tangentista – nel Venezuela di Maduro, nell’Iran di Khamenei, nel Nicaragua di Ortega, nell’Arabia Saudita di Bin Salman, nell’Ungheria di Orbàn, nell’Egitto di Al Sisi, nella Turchia di Erdogan, nella Cina del partito unico e del pensiero unico di Xi Jinping. L’elenco degli autoritarismi del terzo millennio – una vera e propria ondata de-democratizzatrice - potrebbe continuare, è sempre più lungo. Al punto che c’è chi parla di “morte delle democrazie” per mano dei sistemi autocratici e sovranisti.
Stefano Folli, uno dei più quotati notisti politici, il 6 dicembre, su “Huffington Post”, scrivendo di “tremenda fotografia del Censis”, ha letto in quel trenta per cento che preferirebbe un modello autoritario alle lungaggini della democrazia (che anche il 70 per cento ama poco) e che autorizza paralleli imperfetti ma suggestivi con il rifiuto del parlamento di un secolo fa, una conclusione sintetizzabile “nella gran voglia italiana del pugno di ferro”. La domanda che allora dovrebbe rivolgersi agli italiani ammaliati da autarchie e totalitarismi, è: preferireste vivere – e pensare e agire e muovervi liberamente – nelle nostre “declinanti” democrazie, nella criticatissima, “decadente” Unione Europea i cui peggiori e livorosi nemici sono Trump, Putin, Elon Musk, oppure vivere in qualcuno dei regimi che tanto affascinano un italiano su tre? Meglio augurarsi che non abbiano piena contezza della loro risposta. Perché se conoscono perfettamente il significato di autocrazia e sottoscrivono la risposta con cognizione di causa sarebbe peggio. Significa che non ci rendiamo conto di quanto fortunati siamo – pur con tutte le magagne, le criticità, la sua crisi – a vivere in una democrazia, nella libertà, nei diritti civili, nelle regole, nella pace. Tutti beni preziosi sotto attacco proprio da parte delle tanto ammirate autocrazie.
 di Pino Scorciapino

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