La scuola dopotutto è un'azienda

Società | 19 maggio 2015
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Con il Disegno di legge sulla scuola arrivano anche nuovi poteri per i presidi e criteri che, al contempo, ne delimitano parzialmente i poteri. La questione di fondo da affrontare è se la scuola debba essere intesa come un’azienda (seppure senza scopo di lucro) oppure no.

Nuovi poteri ai presidi

La Camera dei deputati ha approvato le norme del Ddl scuola che attribuiscono al dirigente scolastico il compito di conferire “incarichi triennali, rinnovabili, ai docenti assegnati all’ambito territoriale di riferimento, anche tenendo conto delle candidature presentate dagli stessi”. Con più proposte di incarico, è il docente che sceglie. Per i docenti che non abbiano ricevuto o non abbiano accettato proposte, provvede l’ufficio scolastico regionale (articolo 9). I docenti già assunti in ruolo a tempo indeterminato alla data di entrata in vigore della legge conservano invece la titolarità presso la scuola di appartenenza (articolo 8). Se il Senato (dove il governo ha una maggioranza risicata) confermerà la decisione della Camera, nel nuovo anno scolastico i presidi avranno nuovi poteri.
Il nuovo super-preside è sottoposto ad alcuni vincoli nell’esercizio del suo potere di scelta, indicati nell’articolo 7, comma 3: “a) attribuzione di incarichi di durata triennale rinnovabile (..); b) pubblicità dei criteri adottati dal dirigente per selezionare i docenti cui proporre un incarico, tenuto conto dei relativi curricula; c) pubblicità degli incarichi conferiti, della relativa motivazione a fondamento della proposta e del curriculum dei docenti sul sito internet della scuola; d) utilizzo del personale docente di ruolo in classi di concorso diverse da quelle per la quale possiede l’abilitazione, purché possegga titolo di studio valido all’insegnamento; e) potere sostitutivo degli uffici scolastici regionali in caso di inerzia dei dirigenti nella copertura dei posti.” Insomma, il preside (e la commissione che lo coadiuverà) avrà flessibilità nella scelta ma dovrà documentare pubblicamente come e perché ha fatto una certa scelta.
Per le organizzazioni sindacali la riforma trasforma il preside in un padrone delle ferriere con potere di offrire o negare lavoro a suo piacimento ai suoi “sottoposti”. In effetti, la legge regola la misura del “piacimento” del dirigente scolastico nel comma 8 dello stesso articolo, dove si legge che i dirigenti scolastici saranno valutati anche per come scelgono i loro docenti, oltre che per i risultati ottenuti: “In materia di valutazione dei dirigenti scolastici e nelle more della revisione del sistema di valutazione, si tiene conto dei criteri utilizzati dal dirigente per la scelta, la valorizzazione e la valutazione dei docenti e dei risultati dell’istituzione scolastica”. E’ un’indicazione di criteri generica e che rinvia a una ridefinizione del sistema di valutazione successiva rispetto alla legge di riforma che potrebbe non arrivare mai.

La scuola è un’azienda: senza scopo di lucro

Con la riforma della scuola di Renzi va in soffitta il sistema precedente, quello delle graduatorie a cui il dirigente scolastico doveva rigidamente attenersi. Vale la pena di ricordarne le caratteristiche principali. Con l’autonomia ottenuta nel 1997-99 (governi di centro-sinistra), il preside diventa un “dirigente scolastico” responsabile del buon funzionamento dell’istituto scolastico di cui è a capo, per questo pagato circa il doppio di un comune docente con la sua stessa anzianità di servizio. Le riforme di allora furono però riforme a metà. Questo perché rimase che gli obiettivi del dirigente “si realizzano con l’utilizzo delle risorse finanziarie e strumentali ma anche con l’organizzazione delle risorse umane assegnate alle scuole”. Parola chiave: “assegnate”. Il dirigente scolastico era responsabile come un amministratore delegato della scuola, ma non poteva scegliere i docenti della sua scuola. I docenti gli erano (sono) assegnati dagli istituti scolastici regionali che da graduatorie di aventi diritto con diritti determinati in modo arlecchinesco, cioè mettendo insieme – semplifico – i vincitori mai entrati in ruolo di varie sessioni di concorsi ordinari (per titoli ed esami) del passato con i vincitori di concorsi “abilitanti” solitamente più facili e riservati a una o un’altra categoria di precari meritevoli di tutela. In ogni caso, tuttavia, il buon funzionamento della scuola dipende da chi è in queste graduatorie, spesso figlie di iniquità e clientelismi del passato.

In definitiva, le proteste di oggi contro il Ddl scuola e in particolare contro il super-preside sembrano dipendere da un assunto: come ripetuto nelle piazze di tutta Italia da studenti e docenti, si dice che: “la scuola non è un’azienda”. Da qui si deve partire: la scuola è un’azienda. C’è l’azienda Fiat e c’è l’azienda Caritas. La Fiat ha scopo di lucro. La Caritas non ha scopo di lucro. La scuola assomiglia alla Caritas. E’ dunque anch’essa un’azienda, cioè un insieme di asset (attività di valore), combinati da un manager responsabile (il dirigente scolastico) con il supporto del consiglio di istituto (dove siedono studenti, docenti, genitori e personale tecnico-amministrativo) e del collegio dei docenti (con cruciali prerogative didattiche), per produrre servizi di istruzione agli studenti e alle loro famiglie nell’interesse della collettività. Della collettività, non di qualcuna delle categorie che vi partecipano. Per il futuro della scuola italiana è venuto il momento di discutere di questi temi in modo più aperto e approfondito di quanto fatto finora. (info.lavoce)
 di Francesco Daveri

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