Ripoliticizzare l’antimafia
Ringrazio Emilio Miceli, il centro Pio La Torre e Franco La Torre per avere voluto aprire una discussione sull’antimafia di oggi e di domani. E li ringrazio anche per avere voluto individuare alcuni punti, concreti, su cui mettere in campo una possibile azione concreta – l’attacco alla legislazione antimafia, la verità sulle stragi, la direttiva europea. E colgo fino in fondo anche il rischio di avere al governo una destra che, giorno dopo giorno, dimostra per un verso la sua incapacità a governare i processi e per l’altro la sua sottile strategia a colpire gli strumenti di contrasto alle organizzazioni mafiose e criminali.
E tuttavia ci sono alcuni punti che mi piacerebbe aggiungere alla interessante discussione che si sta sviluppando, che riguardano l’intero arco istituzionale ma che soprattutto interrogano il mondo dell’antimafia politica e sociale. A partire da due considerazioni: la grande capacità delle mafie di trasformarsi restando uguale a se stessa (come diceva Giovanni Falcone) e il passaggio di fase che ha reso più difficile per il movimento distinguere le mafie e quindi contrastarle. Oggi viviamo un contesto in cui spesso – lo dicono molte indagini – è difficile comprendere fino in fondo se si hanno di fronte vittime, complici, persino carnefici. Siamo di fronte insomma a un processo di nascondimento delle mafie, di mescolanza tra legale e illegale, di legalizzazione delle mafie molto difficile da affrontare. Lo è per la magistratura (che paga un deficit di credibilità e anche di popolarità nei confronti dell’opinione pubblica), lo è per il mondo politico e associativo che vivono una difficoltà oggettiva di interpretazione dei processi. E che per larga parte ha risposto rifugiandosi nelle ricette del passato (che tuttavia non funzionano più) e in un modello di antimafia fondata – riporto le parole di un sacerdote molto impegnato nella battaglia antindrangheta - su una sorta di “fede dottrinale proclamata a parole, ma poi nei fatti la vita delle persone è indirizzata altrove” con il rischio di “non incidere su niente”.
Il problema però, occorre essere sinceri, non è soltanto dovuto alla capacità di mimetizzazione delle mafie. Ma risiede anche in una crisi di identità dell’antimafia che ha origini lontane. Dopo avere esercitato per anni, e spesso in solitudine, una straordinaria funzione di avanguardia sociale, civile e culturale, da oltre un decennio l’antimafia vive una fase di stanca: l’analisi dei processi è arretrata, il fronte è parcellizzato, le parole d’ordine datate, i riferimenti culturali logori, le relazioni con le istituzioni spesso inopportune. E così – nonostante le importanti e innovative esperienze nate in questi anni – lo slancio si va esaurendo. Da Sud a Nord. E a nulla vale il tentativo di minimizzare molto diffuso nel movimento. L’antimafia vive dentro una contraddizione strutturale: per un verso il movimento è cresciuto, per l’altro si è trovato ad attraversare una crisi da cui non è riuscito ad affrancarsi perdendo di incisività perché il tema mafia ha perso di “urgenza” nel sentire comune e perché, per dirla con Peppino Di Lello, “ci troviamo a dover constatare una diffusa sensazione di rigetto del movimento che rischia di travolgere anche quanto di buono e di efficace esso ha prodotto”.
Il risultato è che le mafie sono letteralmente scomparse dalla discussione pubblica. Vale per il governo di Giorgia Meloni, ma (se vogliamo fare un ragionamento vero) è stato così – con diverse scale di intensità – anche con i governi Conte e Draghi (con la giustificazione delle priorità e della necessità di spendere presto i tanti soldi in arrivo in Italia).
Eppure, guardando all’Italia di oggi, sembrerebbe impossibile: le mafie non sono più invisibili e da anni forze dell’ordine e magistratura portano avanti un’offensiva decisa. Non solo. Grazie a libri e spettacoli teatrali, film e serie tv, alla enorme visibilità di magistrati e giornalisti cosiddetti antimafia, a corsi universitari e master, ai percorsi scolastici e alla miriade di progetti istituzionali attivi, mai come oggi sono circolate tante informazioni sulle mafie. Qual è allora il vero problema?
Due ragioni, distinte e connesse. Semplificando, potremmo dire che attiene alla politica e al movimento antimafia. E anche a una malintesa necessità di divaricazione tra questi due mondi. La politica di questo Paese non è più antimafia. A nessuna latitudine, e trasversalmente. Non lo è quando direttamente compromessa o disponibile al compromesso. Quando trasforma in orpelli le politiche contro i clan o delega a pochi la battaglia. Quando si nutre di giustizialismo o confonde il legalitarismo con l’antimafia. Quando rinuncia a interrogarsi, per dirla con Girolamo Li Causi, sulle ragioni del successo delle mafie.
È successo principalmente perché i partiti, e i sindacati, hanno rinunciato ad avere un proprio punto di vista sulla mafia. Così, come su un piano inclinato, si è passati dall’idea di una politica antimafia a una fase in cui si è preferito affidare il vessillo a poche persone “specializzate” interne ai partiti. Per poi, passaggio successivo, completare il processo di disimpegno con una delega all’esterno (ad associazioni, personalità e spesso magistrati) fino a perdere completamente l’orientamento. Il risultato è che la politica è diventata incapace di leggere la società che pensa di governare.
Un solo esempio, negli ultimi mesi. Dopo i fatti di Caivano il governo ha messo in campo una sua idea di politica mostrando i muscoli in maniera scomposta e a volte con risultati grotteschi, le opposizioni si sono rese protagoniste di qualche generica e purtroppo abusata considerazione su quanto servirebbe “l’esercito dei maestri elementari”. In questa dicotomia ne ha approfittato chi puntava ad acquisire il proprio spazio mediatico e titillare il proprio ego. È successo a Caivano, succede troppo spesso.
Succede per una ragione molto semplice, e dannatamente complessa: nelle classi dirigenti, nei partiti politici non c’è più nessuno che studia, che conosce questi posti, che si pone l’obiettivo di costruire un processo sociale ed economico di lungo respiro, l’unico che può funzionare. Neppure l’anniversario delle stragi del 92 e del 93 è servito al nostro Paese per ragionare di mafia e politiche antimafia. Una grande occasione sprecata.
Anche l’antimafia sociale soffre. Ha ignorato la crisi per molti anni, ha rifiutato di avviare una discussione, ha finto di non cogliere il senso degli scandali, non ha saputo trovare la forza e le parole per reagire. Un tentativo di difendere l’esistente senza cogliere la necessità di cambiare. Un errore, durato almeno fino all’avvento della commissione parlamentare antimafia guidata da Rosy Bindi che ha ha sancito che il re era nudo: «Il movimento ha prodotto in più occasioni personaggi in cerca d’autore, ha accreditato e acclamato per amore di giustizia persone al limite della millanteria, ha portato nelle scuole a spiegare la mafia persone che nulla ne sapevano, ha messo sul podio eroi di carta o addirittura protagonisti di comportamenti illegali, applauditi in memorabili standing ovation», ha praticato in maniera miope la battaglia del pesce grande verso i pesci piccoli per accaparrarsi le poche risorse disponibili”. Ne hanno approfittato anche le istituzioni richiamando strumentalmente la vicinanza a Giovanni Falcone o alle associazioni, per costruire carriere, impunità e percorsi discutibili”. C’è una ragione secondo la relazione della commissione: la definizione “antimafia” non parte più da una definizione concreta e reale della mafia, ma si trasforma poco per volta in una dichiarazione di principio «sempre meno connotata, sempre meno specifica nei contenuti e meno contestualizzata» e diventa «più simbolica e rituale che sostanziale» e spesso si trasforma «in una scatola vuota o uno strumento dialettico per giustificare scelte, posizioni e poteri».
La relazione chiude una stagione e consegna una verità difficile: le strade conosciute non bastano più.
Oggi siamo a un bivio, l’antimafia non ha ancora imboccato una nuova strada.
Per farlo, per ridefinirsi però serve partire dall’analisi delle ragioni della sconfitta culturale. E costruire una nuova cultura politica antimafia proprio nella direzione indicata da Franco La Torre richiamando nel suo intervento le parole di Pio La Torre: “Noi concepiamo la lotta alla mafia come un aspetto della più generale battaglia di risanamento e rinnovamento democratico della società italiana”.
Ecco allora la necessità di ritrovare una cultura politica antimafia che riprenda in mano alcune parole dandogli un nuovo significato radicato in questo tempo. Quando è nata l’antimafia è diventata forte nella storia del nostro Paese ha avuto l’ambizione di essere davvero popolare e incisiva perché si occupava della vita delle persone, del loro diritto al lavoro, della loro libertà, dei diritti sociali delle persone. Concretamente. I braccianti e le braccianti combattevano con i loro corpi per la loro vita. E facevano l’antimafia. Quando l’antimafia è diventata forte in Calabria alla fine degli Anni Settanta faceva una battaglia per il lavoro e per la democrazia. E aveva il coraggio si sfidare l’idea banale e irreale di buono-cattivo. Ci ha insegnato Giuseppe Lavorato, storico sindaco di Rosarno, che se vuoi vincere la battaglia antimafia devi avere la capacità, il coraggio, la forza di rischiare per i ragazzi che vivono border line, che hanno sbagliato, che non dobbiamo consegnare alla criminalità organizzata. Vogliamo cominciare da qui per parlare di Caivano o Primavalle o ad Arghillà a Reggio Calabria? Ricominciare cioè intrecciando l’antimafia alla vita delle persone e ai loro bisogni. Vogliamo parlare della schiavitù in agricoltura? E alla sanità pubblica occupata dalle mafie in mezza Italia? Il movimento antimafia può dare o non può dare un contributo ai movimenti che si battano per una sanità pubblica più giusta? E al netto delle parole vuote, che ruolo può dare l’antimafia nella battaglia contro l’autonomia differenziata?
L’antimafia deve riappropriarsi della parola politica.
Bisogna mettere in campo un processo profondo di ripoliticizzazione dell’antimafia. In questi anni ci hanno detto che l’antimafia non ha colore. Non è vero. E lo dico non perché dobbiamo schierarsi contro Giorgia Meloni e il suo governo. Persino troppo semplice. Lo dico perché fare politica e avere un punto di vista politico deve servire soprattutto ne confronti dei mondi che istintivamente consideriamo più vicini noi. È lì che si gioca la partita, nel rigore che siamo in grado di esprimere con i mondi più vicini a noi, con quelli che si sentono dalla parte giusta. Nella politica nazionale e nelle amministrazioni locali. Consegnare al passato troppi tic, indecisioni, compromissioni. Per esempio l’insopportabile ipocrisia di chi dice di essere contro la mafia o afferma un principio di legalità senza calare queste prese di posizioni dentro le questioni sociali, economiche e politiche. La stupida scorciatoia di chi pensa di poter dividere in maniera manichea il mondo tra buoni e cattivi. E bisogna ribaltare certezze e convinzioni a partire dal rapporto tra potere e critica del potere. Ragionare di politiche di sistema, esprimersi sulla disciplina del mercato, sugli strumenti di welfare e sul mercato del lavoro, sul modello di Paese, sulla lotta alle diseguaglianze, sulle libertà individuali, sul modello di democrazia e i costi della politica, sul ridisegno delle città, sulla scuola e il diritto allo studio, sul ruolo delle classi dirigenti. E bisogna esprimere parole inequivocabili sui controlli sulle banche, sulle politiche che invocano il decoro urbano, sul funzionamento della giustizia, sulla necessità di regolamentare le droghe leggere e pesanti. Deve avvenire nella società, ma la battaglia va ricondotta a testa alta anche nei luoghi in cui si decidono le politiche, cioè nell’agone politico. Con un punto di vista chiaro, che interroga, cerca soluzioni, offre chiavi di lettura, si fa carico di bisogni. E, per dirla con il sociologo Rocco Sciarrone, che sappia incidere sui «rapporti di produzione, nei processi sociali, nelle dinamiche politiche». Dentro un protagonismo che punti alla rigenerazione dei partiti e, al contempo, in un rapporto di rigorosa autonomia (se necessario, anche conflitto) con la politica.
Conflitto e autonomia sono due concetti fondamentali che il movimento deve recuperare. In questi anni l’antimafia ha perso completamente la sua funzione di conflitto sociale, di battaglia dura, corpo a corpo. Ha privilegiato una narrazione tranquillizzante, ha fatto da copertura per istituzioni mediocri con i progetti, ha scelto le commemorazioni stanche e le liturgie. E invece l’antimafia deve recuperare la componente del conflitto, la capacità di schierarsi, di anticipare la magistratura e la politica, non di assecondarla. Ed ecco appunto l’autonomia: dalla magistratura, dalla politica, dal potere. Non è facile, costa. Ma è necessario, indispensabile, vitale.
E l’antimafia deve riprendere in mano una parola troppo trascurata in questi anni in cui si diffondeva la semplificazione, in cui si pensava che l’antimafia fosse lo scontrinismo a cui pure in buona fede ha creduto una parte della società italiana. E cioè la parola complessità. Le mafie sono un fenomeno complesso, dobbiamo essere in grado di leggerle, capirle, interpretarle. E quindi ci viene in aiuto un’altra parola che è “professionismo”, proprio in contrapposizione alla retorica dei professionisti dell’antimafia. Ecco, io sono convinto che una vera antimafia debba essere un’antimafia popolare, di tutte e di tutti, che superi persino l’antimafia sociale dei gruppi organizzati e la delega. Ma attenzione: senza specialisti, senza persone che studiano, senza intellettualità l’antimafia non può esistere. Naturalmente competenze e organizzazione sono indispensabili ma vanno messe al riparo dall’autoreferenzialità per diventare risorse condivise per una una consapevolezza più diffusa e popolare. E in ultimo, un’altra parola, io credo debba tornare a essere patrimonio dell’antimafia: chiaroscuro. L’antimafia è – dovrebbe essere – il movimento capace di leggere i fatti in chiaroscuro, con rigore e lungimiranza. Assu¬mendosi la responsabilità delle scelte. È la ragione per cui, al contrario di come comodamente si usa sostenere, l’unità nella lotta alle mafie non è un valore in sé: bisogna invece rivendicare il diritto – prima ancora la necessità – al discernimento. A partire dal rapporto con i rappresentanti istituzionali.
È un ribaltamento di prospettiva molto lungo e complesso che merita una battaglia politico-culturale nonostante la difficoltà oggi di avere persino un terreno su cui confrontarsi. Sia nel movimento antimafia (con l’incredibile presunzione di alcuni di essere autosufficienti e l’incredibile autarchia di altri), sia nella politica.
L’antimafia ha la responsabilità storica di contribuire alla rigenerazione della democrazia del nostro Paese. Per farlo deve fare del suo meglio. A partire da sé, imparando dal movimento femminista, deve applicare analisi rigorose e saper scegliere di cambiare se stesso per essere al passo con i tempi. E dall’altro, senza remore, deve interrogarsi sul consenso delle mafie, sul loro successo, sulla capacità che ha di dare le risposte che le istituzioni non sanno dare.
Sapendo che un cambiamento reale sarà possibile soltanto a due condizioni: quando l’antimafia tornerà a essere oggetto di una discussione pubblica e parte della cultura politica di una parte larga della società. E di conseguenza quando, per dirla con Alex Langer, l’antimafia non sarà solo giusta ma sarà anche davvero desiderabile.
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