Tracolli politici ed emotivi nell'Ungheria che fu

Tracolli politici ed emotivi nell'Ungheria che fu
Il romanzo di raro nitore di Miklós Vajda, edito da Voland. Un ritratto della madre
che solo negli Usa trovò pace e libertà
Pubblico e privato, voilà, dev'essere...
autofiction. La sofferenza dell'Ungheria, dalla seconda guerra mondiale in poi
(tra croci frecciate, comunismo e post-comunismo), e una madre e un figlio – la
nobile Judit Csermovics e
l'intellettuale Miklós Vajda –
separati dalla storia. Con “Ritratto di madre, in cornice americana” (189 pagine,
15 euro), in italiano grazie alla traduttrice Andrea Rényi, la casa editrice Voland si regala e
regala un nome che non stona in compagnia dei più belli della letteratura
magiara di oggi, Gyorgy Konràd, Peter Nàdas, Péter Esterházy, Imre Kertész,
Giorgio Pressburger (italiano e ungherese, limpidi e insuperati i suoi primi
racconti). Di quella pasta dimostra d'esere Miklós Vajda, classe 1931,
traduttore e saggista di lunghissimo corso, narratore in tarda età, quasi
ottuagenario, con un volume che intreccia inestricabilmente avvenimenti
politici e vicende personali, e possiede uno stile di raro nitore.
Lo
spartiacque fatale delle esistenze dell'autore e della madre è il 1956. Lei
fugge negli Stati Uniti, necessità personale di salvezza lui resta in patria, scelta
civile, più pubblica c he privata. Solo oltre mezzo secolo dopo Miklós Vajda
proverà a comprenderla, a giustificarla e a condannarla per quella scelta di
cui lei andava molto fiera, stabilirsi oltre Oceano, a costo di distaccarsi
dagli affetti. Le guerre mondiali, le persecuzioni degli ebrei (ebreo era il
marito Ödön Vajida, avvocato e consigliere economico degli Asburgo), i
comunisti al potere fanno a pezzi di volta in volta velleità aristocratiche, aspirazioni
“imprenditoriali” (aveva aperto un bar) e voglia di restare della donna, a
lungo protetta da una grande amica, l'attrice Gizi Bajor, icona d'Ungheria fino
agli anni Cinquanta (in appendice al memoir ci sono alcune lettere della Bajor,
che intercede presso i dittatori comunisti).
Il lettore la ritrova in America, porto sicuro dove s'è stabilita, preferendo inseguire lì la libertà e la rinascita personale; pochi significativi incontri, prima negli Stati Uniti, poi di ritorno a Budapest, fra madre e figlio. A New York Miklós la ritrae modesta e umile, seppure a testa alta con qualche piccolo vezzo d'antica memoria, ma soprattutto desiderosa di dimostrare che ha fatto bene ad andar via, a scegliere la terra delle opportunità. Vajda va a caccia del senso della propria vita a partire dal rapporto – tra affetto, rigore e distacco – con la madre, dai tracolli delle loro esistenze.
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