Un origami a forma di rana per salvarsi dal torpore

Di Hakan Günday si potrebbe scrivere quello che Philip Roth, in uno dei suoi libri più belli e meno conosciuti, ha scritto di Primo Levi: «La sua prontezza di riflessi è quasi palpabile, la perspicacia vibra dentro di lui come una piccola fiammella interiore». L’editore Marcos y Marcos ha avuto il merito di dare una voce italiana (tecnicamente quella del traduttore Fulvio Bertuccelli, messinese) a questo lucidissimo intellettuale turco che non ha paura di scrivere nemmeno una virgola. Scrittore politico (e profetico), ma mai noioso, in Italia s’è fatto apprezzare prima per “A con Zeta” – storia parallela delle solitudini di un ragazzino e di una ragazzina in fuga da ottusità, ignoranza, fondamentalismi e assenza di sentimenti – e adesso con “Ancóra” (492 pagine, 18 euro), romanzo non si sa se più crudele o più attuale, non semplici pugni allo stomaco, ma cazzotti scagliati da un boxeur.
Günday, nel suo tour italiano, è
passato anche da Palermo (alla libreria “Modusvivendi”), dove appassionatamente
ha spiegato la propria idea di letteratura, il contrario di restare in
silenzio. Lui di certo – che ha parlato di Malaparte e Celine come riferimenti
per scrivere questo romanzo – non sta in silenzio. Non ha esitato a dire che «in Turchia s’è perso il
valore d’essere umani e che va ritrovato in fretta» e che «Non siamo obbligati a scegliere fra est e ovest, sono solo direzioni. Mettiamole
tutte assieme e troveremo la terra».
Idee che si ritrovano fra le
pagine di “Ancòra”, nel suo piccolo protagonista Gazâ, orfano di madre, nove
anni, che passa la vita a subire violenze e a restituirle, a capire chi è, avviato
dal padre Ahad al suo stesso mestiere, quello di trafficante di migranti dopo
essere stato giovane guardiano di clandestini nascosti in una cisterna. Come
amuleto a cui aggrapparsi nei momenti difficili, come voce della coscienza,
Gazâ ha un origami a forma di rana, regalo di Cuma, clandestino afgano, morto
per indolenza e negligenza (la mancata accensione di un ventilatore in un
camion) dello stesso Gazâ, chiamato implacabilmente a scegliere, come ognuno di
noi. Noi – cittadini, lettori, uomini – dobbiamo decidere se restare
impassibili o svegliarci dal torpore, dinanzi alle tragedie che ci deflagrano
attorno. Il male non è un gioco, né una condanna irreversibile, ma la
redenzione non ha nulla di edulcorato. E, a un certo punto, Gazâ si trova vivo
per miracoli, sommerso, quasi soffocato, da un diluvio di cadaveri.
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