Una tavola di valori
per le forze antimafia
Società | 15 novembre 2024
Caro Miceli, caro La Torre,
immaginiamo che a partire dagli stimoli presenti nel dibattito cui avete dato vita si elabori un documento iniziale, di avvio. Da incentrare sulle concrete battaglie che si ritiene di dover portare avanti per obiettivi raggiungibili. Dicesi raggiungibili. Non predicabili.
Avvio di che? Di una esperienza di democrazia partecipativa. Consisterebbe nel sottoporre il documento al parere di tutte le realtà singole e associate impegnate nella lotta ideale e civica contro mafiosi e collusi. Incontri, spiegazioni, divergenze, correzioni. Anche le eventuali assenze avrebbero un significato.
Un anno di lavoro, mettiamo. Dopodiché convocare una assemblea rappresentativa dei soggetti coinvolti, per valutare i risultati del confronto e trarne indicazioni operative.
Se l’impresa riesce, si avrà un manifesto di valori principali e di rivendicazioni; comune ci si augura a una vasta area di forze antimafia, in primo luogo; ma che sia strumento per raggiungere – ecco il punto strategico – le forze che mafiose non sono e tuttavia non attivamente contrapposte al sistema di criminali e complici; quello è il macigno da smuovere per vincere. Non si trascuri di riflettere su una distinzione di fondo istruttiva e importantissima. Nell’ultimo mezzo secolo la grande novità della lotta popolare che c’è stata contro i mafiosi è sorta da ragioni negative: morti per droga sul finire degli anni ’70 e tragico allarme per le famiglie a Palermo fecero tentennare la passività verso la mafia, animatrice del narcotraffico; innumerevoli cadaveri sotto il naso durante la guerra di mafia; missili a Comiso; stragi a mai finire. Invece, dopo lo sbarco degli Alleati e nel dopoguerra, il più grande movimento sociale contro la mafia si sprigionò per ragioni positive. Non è che braccianti e contadini con le loro famiglie appresso decisero un giorno di aggredire l’insopportabile potere mafioso. Al contrario, furono i mafiosi ad aggredirli per contrastare la loro lotta sacrosanta per la ripartizione dei prodotti e la coltivazione delle terre abbandonate. E non c’è dubbio che l’occasione positiva di maggior rilievo sulla quale concentrarsi è, attualmente, il rilancio imprenditoriale dei beni confiscati; la denuncia della revoca dei fondi Pnrr ad essi originariamente destinati dovrebbe proseguire energicamente, chiedendo nella discussione della legge di bilancio se si intenda compensare e in che modo.
Per gli sviluppi che stiamo immaginando, il primo elemento da considerare attentamente è che la questione del momento non è tecnica. Si rileggano i vari interventi e si vedrà che le idee tecniche, fattibili ed efficaci, per irrobustire l’armamentario non mancano. La questione è di politica pura. È in corso, in sostanza, un riequilibrio di alleanze tra potere politico e le diverse Cose nostre. Anche qui, nella rilettura, si veda l’insieme degli incalzanti dribbling governativi.
Le alleanze avvengono di fatto. Sempre quello che accade prevale su quel che si vorrebbe accadesse. Cioè: una alleanza quasi mai è frutto di una trattativa di tipo parlamentare o di tipo sindacale: delegazioni che si incontrano, piattaforme a confronto, compromessi e formali accordi da sottoscrivere; salvo verificare chi li rispetta e chi no.
Per modificare l’art. 445 del codice penale l’ex presidente della Corte Costituzionale ed ex ministra Marta Cartabia non è che ha incontrato competenti esponenti mafiosi (un altro mito che si sta cominciando a creare, specie per la sapienza informatica utile al riciclaggio, è che la mafia sia divenuta una specie di avanguardia dell’innovazione; mentre lo Stato rimarrebbe uno di quelli che a scuola prendevano cinque e rimandati a settembre. Pessima propaganda i miti. Prima c’era quello di coppole con giacche di velluto e, succedaneo, quello dei viddani. Adesso sembra che incombano mitiche giacche di cachemire e computer alternativi alla lupara). Sicuramente il fatto è tanto clamoroso che viene difficile valutare quale delle due esponenti istituzionali (l’altra è Saguto) ha provocato più danno.
Le alleanze appartengono alla realtà nuda e cruda. Manca l’ipotesi politica interpretativa, spiegava Pio La Torre, ai tempi del terrorismo mafioso adombrato da quello neofascista e delle Br, salvo scoprire che erano demoni della stessa fatta.
Al fine di abbozzare un profilo dei raggruppamenti più di altri recettori degli impulsi mafioseschi, si potrebbero scrutare i numerosi comuni sciolti per infiltrazioni, diciamo dal 2000 in poi, ed evidenziare il colore delle rispettive giunte. Di quali liste facessero parte i sempre più abbondanti consiglieri e assessori e sindaci imputati e rinviati a giudizio o “patteggiati” per voto di scambio. E la lista dei condannati per abuso d’ufficio, adesso che il reato è stato abolito, può essere d’aiuto per completare l’identikit. Una volta il contenitore più ampio di interessi mafiosi sia indiretti (favoreggiamenti) che diretti (“uomini d’onore” eletti) era la Dc, una parte della Dc, tutti gli italiani ne erano stati messi al corrente. Dalla seconda repubblica in poi le impronte digitali degli alleati dei mafiosi si sono complicate. Si direbbe che il virus intrallazzista si sia diffuso tra i politici grazie a varianti meno visibili.
Eppure… Una volta la sfrontatezza nei rapporti con i mafiosi si manifestava sui palchi dei comizi elettorali. I boss locali non prendevano la parola, stavano lì a testimoniare in silenzio sostegno e, come ora si usa dire, inclusione. La sfrontatezza oggi è aberrante. Sempre più numerosi i sedicenti politici che dagli enti locali in su non esitano a lasciar scoprire (altro che innovativi!) lo scambio pagato ai venditori di voti.
Il lavoro da fare è duro. Anzitutto perché non manca la volontà politica. Ce n’è troppa. Volenterosa particolarmente su un bersaglio: smontare l’architettura della normativa antimafia. Una magnificente deregulation italiana che, di questi tempi, a diffondersi nel mitico Occidente democratico impiegherà un tempo brevissimo rispetto a quanto ce n’è voluto per far adottare ad altri paesi dei continenti capitalistici le leggi italiane d’avanguardia, prima fra tutte la Rognoni-La Torre; ammirate, sì, ma non riprodotte granché altrove. Belle e impossibili. Anche nel paese natio, del resto, oggetto di colpi sottobanco.
Di contro, l’astensionismo ha aumentato il peso specifico del voto “mafioso”. Più che per statistica, per il fondamento stesso del sistema capitalistico: la scarsità. Meno è diffusa un certa risorsa più aumenta il suo valore di scambio, il prezzo da pagare. Purché la risorsa, beninteso, sia necessaria alla vita dei singoli e della comunità. E il voto è indispensabile sia per gli individui: candidati da eleggere; sia per la collettività: funzionamento delle istituzioni. Siccome la risorsa del consenso politico è bruscamente calata, ergo è divenuta più costosa e maggiore il profitto che ne possono trarre i malintenzionati. Chi ci vuole guadagnare farà di tutto per ridurre ulteriormente il parco di chi si reca ai seggi.
Ragioniamo con i numeri. Ai primi anni ‘90 la commissione antimafia arrivò a calcolare, per approssimazione, che gli aderenti in senso stretto a Cosa nostra in Sicilia fossero circa cinquemila. Se ad ognuno si attribuisce la capacità di condizionare venti elettori si ottiene un potenziale di centomila voti. Ad allargare la forza d’urto elettorale di tale organizzazione c’è da considerare la cornice di collusi e “simpatizzanti”: mettiamo diecimila e per ognuno di essi una rosa di dieci elettori, sarebbero altri centomila voti altamente probabili. E siamo a duecentomila. Vi è poi un’area più larga di persone avvicinabili o minacciabili che può dare risultati tangibili sebbene più incerti. Ipotesi: cinquantamila, con una resa del 50% = venticinquemila. Saremmo ragionevolmente a circa duecentoventicinquemila voti pilotabili.
Rispetto al numero di voti validi delle ultime regionali del 2022, il peso specifico dei voti mafiabili (aggettivo coniato da Michele Greco, mi pare) equivarrebbe al 9,45 % dei 2.126.064 espressi. Anche a voler dimezzare la cifra, per cautela, si tratterebbe comunque di una percentuale equivalente a quella del quinto partito e alla conquista di 3-4 onorevoli all’Ars. Ci si diletti a stabilire quanti consiglieri di quartiere, comunali, assessori, sindaci potrebbero essere stati ottenuti.
In altre parole, i mafiosi hanno sempre curato l’aspetto elettorale dei rapporti di forza, ma sino a tutto il secolo scorso lo hanno fatto indirettamente, sostenendo liste e candidati verso di loro bendisposti, inserendo anche alcune candidature organiche. Da qualche decennio hanno cambiato parametro: se li eleggono da sé. Cosicché il teatro della lotta antimafia, non fosse che per questo pericolo di grave inquinamento, si impone che torni a trovare palcoscenico nelle sedi elettive, non solo nelle aule dei tribunali.
Si staglia, qui, per la sua assenza il codice etico dei partiti. Indispensabile, visto che dopo 77 anni la Costituzione non è stata attrezzata di una regolamentazione della vita di queste libere associazioni democratiche (art. 49). Un altro argomento di rilievo per il documento di avvio.
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