19 luglio: anniversario della morte di Paolo Borsellino
Ogni anniversario è occasione di riflessione, d’impegno civile e politico, purtroppo anche di divisione e di strumentalizzazione. A questa ovvia constatazione non si sottrae quello della strage di via D’Amelio (19 luglio 1992) nella quale caddero il giudice Paolo Borsellino e gli uomini della scorta – Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina-.( Si salvò solo Antonino Vullo).
Paolo Borsellino, il suo collega Giovanni Falcone, ucciso due mesi prima nella strage di Capaci assieme alla moglie e alla scorta, e tanti altri periti nelle guerre di mafia del dopoguerra sono stati onesti servitori dello Stato e delle istituzioni repubblicane senza alcuna ambizione personale all’eroismo. Caratteristica comune, ne cito qualcuno senza far torto a tutti gli altri, a Piersanti Mattarella, presidente della Regione, democristiano, Pio La Torre, deputato nazionale, segretario regionale del Pci, Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto a Palermo, Gaetano Costa e Cesare Terranova, giudici a Palermo, tutti prestigiosi rappresentanti dello Stato nella loro funzione politica, amministrativa, giudiziaria. Furono uccisi, come Paolo Borsellino e Giovanni Falcone perché avevano saputo contrastare, con la loro azione e la loro capacità di mobilitazione istituzionale, politica e sociale, il fenomeno mafioso contribuendo a definirne i contorni economici, sociali e politici.
Altro che uomini soli e isolati!
Grazie anche a loro, la lettura del sistema politico mafioso, sino allora negato dalle leggi penali, comincia a prendere visibilità con le guerre di mafia degli anni ottanta e novanta. L’organizzazione mafiosa da braccio armato illegale di una parte della classe dirigente, con i ricchi proventi dei nuovi traffici illeciti, pretende di essere parte organica riconosciuta della stessa. Più potere economico uguale più potere politico e sociale. Se non si accetta questa analisi, piena di complicanze politiche e istituzionali, difficilmente si può spiegare perché dopo tanta repressione giudiziaria, resa efficace dalla nuova legislazione penale antimafia inaugurata dalla legge Rognoni-La Torre, le mafie continuano ad espandersi in nuovi territori nazionali e europei. Il loro contributo ancora valido va contestualizzato storicamente. Non si deve loro attribuire pensieri e idee politiche che da vivi mai espressero. Una delle espressione usate da autonominati eredi è: “ sono stati uccisi dallo “Stato”, il nuovo Leviatano. Come se tutti quelli che abbiamo ricordato non fossero uomini dello Stato. L’espressione è volutamente equivoca, non chiarisce se per Stato si intende qualche suo organo o soltanto qualche suo componente politico, istituzionale o amministrativo. L’equivoco non consente di distinguere, pertanto si può affermare che la mafia è lo Stato o è nello Stato senza riuscire a provare e perseguire la responsabilità politica.
È il nocciolo del processo in corso sulla cd Trattativa Stato-mafia, nel quale il Centro studi Pio La Torre è parte civile. Ci sono responsabilità individuali o di gruppi di uomini dello Stato contro altri uomini dello Stato e l’interesse pubblico? Nell’una o l’altra ipotesi, comunque da provare, è concreto il rischio di alimentare la sfiducia dei cittadini verso lo Stato democratico. Quello che è certo che le polemiche hanno poco a che fare con l’antimafia, quella senza alcuna aggettivazione. Le strumentalizzazioni istituzionali, politiche, familiari nelle ricorrenze antimafie lasciano da parte le battaglie affinché Governi e Parlamenti, nazionale e Europeo, legiferino per adeguare le norme penali e amministrative di contrasto alle mafie e alla corruzione la cui capacità diffusiva e moltiplicatrice della prima è ormai acclarata, stimolino la formazione di professionalità e competenze specifiche degli apparati preposti, incoraggino ogni azione di prevenzione culturale e politica antimafia, potenzino la trasparenza e la partecipazione sociale alla governance dello Stato e del Mercato. Un mercato lasciato libero a sé stesso, così l’intervento statale centralizzato e sostitutivo, ha fallito come dimostrano gli ultimi decenni della nostra storia. Diventa sempre più urgente, viste le dimensioni della disoccupazione e dell’indebolimento del nostro apparato produttivo, rilanciare il ruolo regolatore dello Stato con politiche keynesiane in economia e in politica con l’allargamento della partecipazione sociale, garantendo la legalità.
Sostanzialmente è quanto hanno cercato di fare, nel loro contesto storico, le vittime come Paolo Borsellino: liberare lo Stato di diritto, modellato dalla Costituzione nata dalla Liberazione antifascista, da ogni potere occulto.
Democrazia e antimafia sono le facce della stessa medaglia che non ammettono né divisioni né strumentalizzazioni davanti le lapidi delle vittime per la Repubblica.
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