Tutte le ombre della campagna contro le misure antimafia
L'analisi | 30 luglio 2024
Dopo tanti anni di silenzio e di grossolana propaganda, dopo una stagione di insopportabile retorica, finalmente c'è qualcuno che vuole ritornare a parlare di Antimafia con un po' di sapere.
Sono molto (piacevolmente) sorpreso dalla riflessione proposta da Emilio Miceli e rilanciata da Franco La Torre perché, al di là delle opinioni espresse, riempie un vuoto che dura da lunghissimo tempo. Ed è questo, soprattutto, almeno per me, il grande valore dei loro interventi. Mettere in campo le idee, discutere, se è il caso anche polemizzare aspramente. Ma parlare, parlare, parlare, confrontarsi, uscire dalle sabbie mobili dove ci hanno trascinato.
Se cancelliamo gli slogan, se ci lasciamo alle spalle questi ultimi periodi bui di urla e di ignoranti partigianerie, forse è arrivato davvero il momento di ricostruire qualcosa, è arrivato il momento che le idee possano avere il sopravvento.
Due i temi toccati sostanzialmente da Emilio: le misure di prevenzione e la verità sulle stragi. Tutti e due temi che da un bel po' sembrano materia trattata sistematicamente dalla destra italiana o da un mondo particolarmente interessato – per le più svariate ragioni – a minare l'attuale legislazione antimafia e a imporre nuovi scenari sui massacri del 1992 e del 1993.
Senza entrare tecnicamente nel merito del primo punto, mi limito ad osservare semplicemente che è in corso una violenta campagna contro il cosiddetto “doppio binario”, l'attacco è contro le misure di prevenzione, uno dei capisaldi della legge Rognoni-La Torre. Facilitati dalla distrazione sempre più crescente verso le questioni di mafia e di antimafia, incoraggiati dagli scandali che hanno investito il Tribunale di Palermo con le vergognose scorribande della giudice Silvana Saguto, gruppi di pressione – formati da imprenditori stritolati dalla zarina palermitana delle confische e dalla sua corte o ipergarantisti della prima e dell'ultima ora – si sono impossessati dell'argomento con l'obiettivo di devastare una legislazione antimafia che è la più avanzata del mondo. Non sono un tecnico e non voglio inoltrarmi nelle pieghe degli articoli del codice, però insisto: quell'argomento, da almeno un paio di anni, è solo in alcune mani. Dall'altra parte c'è, con qualche eccezione, un totale disinteresse, c'è l'incapacità di decifrare i pericoli che porta la campagna contro le misure di prevenzione, c'è un'inadeguatezza molto inquietante e un'apatia che attraversa quelle forze politiche che, più di altre, dovrebbero allarmarsi per ciò che sta accadendo. C'è bisogno che qualcuno risponda – e con i giusti toni e con la competenza necessaria – a quest'offensiva che rischia di scardinare quel poco di buono che siamo riusciti ad ottenere sino ad ora intorno alle confische dei patrimoni mafiosi. Dico "quel poco” perché se la macchina poliziesco-giudiziaria ha conseguito apprezzabili risultati nella fase del sequestro dei beni, l'Agenzia nazionale si è rivelata anno dopo anno simbolo del fallimento di una politica assolutamente lontana e nel migliore dei casi disinteressata al problema. Lo ripeto: c'è bisogno che si affronti al più presto la questione delle misure di prevenzione per non lasciare campo libero a chi non le vuole.
Il secondo punto è anche più complicato del primo: le stragi. Sono passati 32 anni e c'è un pezzo di Stato che ha fatto affiorare frammenti di verità mentre un altro pezzo di Stato quei frammenti di verità ha cercato di ricacciarli negli abissi. Non conosciamo i "mandanti altri” di Capaci e di via D'Amelio, ma neanche dell'omicidio di Carlo Alberto dalla Chiesa e di Pio La Torre, di piazza Fontana e delle bombe sui treni. C'è il primo degli italiani, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che non conosce dopo quarantaquattro anni nemmeno l'autore materiale, il sicario che nel giorno dell'Epifania del 1980 ha ucciso a Palermo suo fratello Piersanti, presidente della Regione Siciliana e delfino di quell'Aldo Moro che voleva il compromesso storico con i comunisti.
Nonostante questo, cerco di vedere pure il bicchiere mezzo pieno. Per la prima volta nella storia, nell'ultimo quarto di secolo i mafiosi sono stati rinchiusi nelle carceri speciali, denunciati, processati e condannati per i massacri più efferati. Non era mai accaduto prima. Ma è altrettanto vero che oltre quel livello, la cupola, Totò Riina e le altre facce sconce che abbiamo imparato a riconoscere dalla fine degli anni Settanta ad oggi, niente si è scoperto e probabilmente niente si scoprirà se continueremo a essere prigionieri dei luoghi comuni o – peggio – vittime dei depistaggi che hanno caratterizzato le indagini su delitti eccellenti come quello del procuratore Paolo Borsellino.
Ora tutti parlano di una nuova pista, quella del dossier "mafia e appalti“, una sorta di scatola nera che spiegherebbe il perché dell'uccisione del magistrato. È un altro totem, un altro feticcio agitato per portarci – almeno questa è la mia opinione – sempre più lontano dalla verità. Pista abbracciata dall'ex capo dei servizi segreti Mario Mori imputato (poi assolto) nel processo per la trattativa Stato-Mafia, rielaborata sapientemente nelle aule-laboratorio della Commissione parlamentare antimafia presieduta dalla destra Chiara Colosimo, riscoperta dalla procura della repubblica di Caltanissetta che dopo trenta e passa anni si è accorta che quell'ipotesi investigativa potrebbe condurre da qualche parte. Io conosco quel dossier su "mafia e appalti” dal 1991 e l'ho letto allora e riletto in questi mesi più volte. Non mi pare particolarmente interessante per “spiegare” la morte di Paolo Borsellino. Per niente. È sbandierato come traccia "importantissima“ e insabbiata dai magistrati palermitani del tempo, rifiutata perché in qualche modo erano collusi. Lo dico un'altra volta: penso che questa pista "mafia e appalti” porti da nessuna parte e faccia perdere ulteriore tempo alla macchina della giustizia. Se poi qualcuno, con robuste argomentazioni e non con grida interessate mi dimostrerà il contrario, non ho avrò difficoltà a ricredermi.
Infine vorrei fare alcune considerazioni generali per provare a fare qualche passo avanti nel dibattito aperto dal presidente del centro Pio La Torre. Un parola sulla magistratura italiana trentadue anni dopo l'uccisione di Falcone e Borsellino: la magistratura italiana ha riscoperto la sua anima conservatrice e, in alcuni casi, reazionaria. Falcone e Borsellino rappresentavano un'anomalia assoluta nella loro corporazione e adesso, dopo più di un quarto di secolo, la magistratura si è riappropriata della sua natura. E non basta mostrare, nella parete dietro la propria scrivania, quella bellissima foto di Tony Gentile per diventare come loro.
Una parola anche sui giornalisti visto che faccio il giornalista da quasi mezzo secolo. Sulla mafia c'è sempre più comunicazione e c'è sempre meno informazione, la vicenda della cattura di Matteo Messina Denaro (un arresto disinfettato come una sala operatoria) lo dimostra ampiamente. Conformismo, superficialità, l'accettazione di una versione ufficiale senza cogliere evidenti contraddizioni. Per non parlare poi del "sistema Montante” e di quella ventina di giornalisti famosi che scodinzolavano nel suo salotto, ricevendo favori e prebende. Organismi criminali camuffati da antimafia e non riconosciuti da cronisti e scrittori (m anche magistrati, generali, prefetti, ministri dell’Interno come Angelino Alfano) che si vantavano per la loro esperienza in materia. Come alcune associazioni e fondazioni, più proiettate ormai verso interessi di famiglia o preoccupate a mantenere sé stesse.
Ecco perché questa riflessione del nuovo presidente del centro Pio La Torre la considero una boccata d'aria.
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